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Il centro di una città
può diventare un ristorante o un luna park per turisti?
La
difesa o la promozione di un luogo si fa permettendo alle persone di viverci, di
costruire nel centro di una città una famiglia, di poter andare a godere del
panorama e della vista, di avere i servizi. Permettere a tutti di fare ciò. Perché
la città negli spazi comuni è di tutti ma non per fini privati.
E non c’è alcuna tradizione da difendere. Alcuna identità. L’identità di una
città è quella che disegnano giorno per giorno i suoi abitanti. residenti o
marziani che siano. Per parafrasare le parole del filosofo francese Alain Badiou, chi è a Firenze è di Firenze così chi
è a Catania è di Catania. Invece il
centro, il nostro centro gli
abitanti non li ha più. Ha solo pensionati,
avventori,
qualche matrimonio, passanti ed un numero incalcolabile di tavoli e sedie,
così chi va’ in centro poi pensa solo a tornarsene a casa. Che poi
episodicamente qualcuno ci organizzi una bancarellata di cianfrusaglie è
un’altra storia. Ma intanto sempre più botteghe rimangono sfitte a causa di
questo mordi e fuggi nel centro mentre tutte la altre attività di ogni genere
sono riversate in periferia ormai invivibile.
Così la
città é un non-luogo
vuoto, preda delle “passeggiate” di chi lo attraversa per bere
all’aperto un caffè, gustare una granita o farsi due selfie davanti alla
Cattedrale . Passateci la sera, soprattutto d’inverno, nel centro di Acireale.
Non troverete
alcuna
identità da
difendere. Nessuna
tradizione. Ma solo un
posto vuoto e desolato, lo scenario triste dopo l’orgia estiva,
dove non udirete risa di bambini o tv accese sulla partita.
Se poi pensate che l’identità e la tradizione siano segretamente conservate in
quelle mura, in quei monumenti, allora sappiate che, benché si stia parlando di
una delle città più belle della Sicilia, vi state accontentando di poco. Le
città non sono musei, dato che il primo problema del conservare
opere d’arte in un museo è la sottrazione dell’opera stessa al suo contesto
storico: il
quadro, la
scultura dentro il
museo perdono il loro significato originario, la dislocazione della collocazione
produce un effetto di straniamento.
Inoltre il museo (a cielo aperto o al chiuso che sia) è come se sclerotizzasse
la Storia, la congelasse in un passato che si è concluso e che non ha alcun
rapporto col presente: sembra dire che la
Storia è finita e non
ci resta che contemplarla, perché a noi contemporanei non è dato contribuire, siamo
uomini post-storici. E poi la storia, se volete, si trova anche
da altre parti del territorio, quasi in periferia.
È
evidente il succo politico che si può trarre da questa lettura: siamo
solo chiamati a ‘conservare’. L’effetto di questo atteggiamento
è il tableau
vivant, la casa dei trogloditi come-vivevamo-una-volta presso la
quale i turisti vengono portati coi pullman e che ha sùbito dietro la collina il
vero villaggio con le antenne paraboliche, Internet e la Playstation.
La
ricerca del ‘vero’ acese, della ‘vera’ identità della città non ha alcun senso.
L’antropologo Marco
Aime nel suo libro ‘Eccessi
di culture‘ (Einaudi
editore) racconta la storia di alcune maestre che in perfetta buona fede, per
mettere a loro agio i bimbi ‘stranieri’ a scuola, vanno alla ricerca della
‘vera’ ricetta del couscous, la trovano su Internet, cucinano e mangiano coi
bimbi. A un certo punto la maestra chiede a un piccolo di origine marocchina: “È
buono come quello che fa tua mamma?”. Il bimbo risponde: “Quello
di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di
tortellini, uno di couscous…”. È solo una divertente storiella, ma fa capire
quanto sia difficile andare alla ricerca di un’identità ‘pura’. E come sia
pericoloso, anche se si tratta solo dell’identità di una città.
L’identità di Acireale è quella che costruiamo insieme tutti i giorni vivendo
dentro la città, contribuendo al disegno (brand) del suo futuro. Le identità non
si impongono dall’alto affidandone la scelta ad un presunto studioso, si
costruiscono facendo un percorso assieme, a cui tutti siamo ancora chiamati. In
fondo è il senso del gioco dell’antropologo James Clifford con l’omofonia tra le
parole roots (radici)
e routes (strade): le radici sono strade e le risorse
umane si trovano lì.
Spunti tratti da una riflessione di Francescomaria Tedesco
Filosofo del diritto e della politica
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