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Palazzolo Acreide (Siracusa)
 
 
 
 

 

 

Il territorio di Palazzolo risulta abitato sin dalle ere più antiche; le fonti preistoriche testimoniano la presenza dell’uomo e ne documentano il difficile cammino attraverso le varie fasi del paleolitico, del neolitico, dell’età del bronzo e del ferro, fino all’arrivo dei Greci.


Nel X-XI sec. a.C. il vasto altopiano doveva essere popolato dai Siculi stanziati in sparsi piccoli villaggi le cui necropoli scavate in costoni rocciosi caratterizzano tuttora diverse contrade di Palazzolo.


In questo territorio, allora ricco di boschi, sorgive e corsi di acqua, i corinzi siracusani, su un colle accuratamente scelto per le sue pareti inespugnabili, fondarono nel 664-663 a.C. la loro prima colonia: Akrai.


La fondazione di Akrai, avvenuta settant’anni dopo quella di Siracusa, come attesta Tucidide, segnava una importante fase di espansione territoriale dei siracusani che intraprendevano la conquista del ricco entroterra scacciandone gli indigeni verso l’interno. Questa nuova città-fortezza assicurava il controllo politico-militare sui Siculi dell’altopiano ibleo.

 

Nello stesso tempo, grazie alla strategica posizione geografica difendeva, assieme a Kasmenai, e poi anche a Kamarina, i confini meridionali del vasto territorio siracusano; così come era in grado di vigilare sulle vie di comunicazione che conducevano verso l’interno.


Tutte queste qualità di carattere strategico-politico-militare favorirono la crescita e la prosperità di Akrai che si affermava anche come luogo di scambi commerciali e come centro di ellenizzazione delle genti sicule anche nei secoli successivi.


A metà del VII sec. a.C. risalgono le sepolture della necropoli di Pinita-Torre Iudica: la progressiva estensione di queste necropoli nel VI e V sec. a.C., e la nuova necropoli di Colle Orbo, con sepolture dei secoli successivi, danno la misura della continuità dello sviluppo di questa piccola, florida, polis greca.


Akrai ebbe sicuramente una propria autonomia amministrativa, anche se in periodo classico non risulta aver battuto alcuna moneta.


La vicinanza geografica della madre patria, ed il fatto che Akrai vi rimanesse sempre fedelmente legata e soggetta, avrà contribuito a limitare il ruolo della piccola polis che seguiva le sorti e viveva di riflesso le più gloriose vicende di Siracusa.


Le fonti antiche, avare e sporadiche, non permettono una ricostruzione puntuale e continua della vita di Akrai nell’arco dei secoli.


Le poche citazioni degli scrittori e storici antichi – Tucidide , Plutarco, Diodoro Siculo, Silio Italico, Plinio, Stefano Bizantino – si riferiscono, quasi sempre, ad Akrai in relazione ad importanti avvenimenti della storia siciliana.


Nel 413 a.C., – secondo Tucidide – nei dintorni di Akrai, i siracusani sconfissero definitivamente l’esercito ateniese condotto da Nicia.


Plutarco, descrivendo la spedizione di Dione contro il tiranno siracusano Dionigi II, – nel IV sec. a.C. – , narra che il primo, sbarcato ad Eraclea Minoa, marciò verso Siracusa chiamando a raccolta i volontari, gli esuli siracusani, i mercenari. Si fermò ad Akrai da dove fece spargere la voce che subito avrebbe attaccato Leontinoi. A tale notizia i Lentinesi che presidiavano le mura dell’Epipoli abbandonarono le posizioni per correre a difendere la loro città. Dione ripartì da Akrai e facilmente conquistò Siracusa (357 a.C.).


All’inizio della I guerra punica, nel trattato di pace del 263 a.C., conclusosi tra i Romani e Gerone II, Akrai è ricordata da Diodoro Siculo come una delle città del regno siracusano.

 

Se si pensa che al regno geroneo furono lasciate solo le città rimaste fedeli al re – Acre, Eloro, Lentini, Megara, Noto, Taormina – si può dedurre che Akrai, come le citate città, non solo rimase fedele a Siracusa ma non fu sottomessa né conquistata con la forza dai romani. Ed è proprio durante il regno di Gerone II (275-215 a.C) che Akrai raggiunse il massimo splendore. I più notevoli monumenti finora scoperti: il teatro, il bouleuterion, i Santoni, i templi ferali, la strada cittadina (decumano), il bassorilievo dell’Intagliata e i più importanti templi acrensi, sono proprio di questo periodo.


Nel III sec. a.C. Akrai è ricordata ancora da Livio in occasione di una battaglia avvenuta ad Akrillae (una sconosciuta colonia di Akrai) nel 213 a.C., fra i romani del console Marcello ed i Siracusani dello stratega Ippocrate.


Ippocrate, sconfitto, si rifugia ad Akrai. La cittadina, quindi, almeno in questa occasione, non doveva nutrire sentimenti filo-romani, contrariamente a quanto tramandato da Silio Italico che la annovera fra le città fedeli a Roma.


Dopo la conquista di Siracusa (211 a.C.) i territori e le città del dissolto regno siracusano vengono a far parte della provincia romana.


Akrai sarà stata sicuramente città “decumana”, pur godendo di autonomia e libertà; era, però, costretta a versare la decima parte di tutti i prodotti del territorio. Non si sa, però, se fu fra quelle 40 città siciliane che si consegnarono ai romani o fra le 20 città conquistate per tradimento (Livio).


Che fosse una città “decumana” è confermato dal fatto che, in periodo augusteo, intorno al 28-21 a.C., è annoverata da Plinio fra le “civitates stipendiariae”.


Queste non erano altro che le città decumane non più soggette al pagamento della decima in frumento ma ad un tributo fisso in moneta, appunto uno “stipendium”. Akrai mantenne l’alto stato di sviluppo socio-economico raggiunto durante il regno di Gerone II anche nel successivo periodo di dominazione romana.


In questo periodo si debbono collocare le due emissioni monetarie della città. La prima emissione, dagli studiosi datata intorno al 210-208 a.C., è costituita da una moneta bronzea che porta sul diritto la testa di Zeus rivolta a destra e sul rovescio un’acquila con le ali semiaperte, fra gli artigli un fulmine ed a destra il monogramma AKP(AIΩN). L’altra emissione bronzea, ritenuta fino a qualche tempo fa l’unica, viene posta intorno al 130-125 a.C.


Porta nel diritto la testa di Persefone, rivolta a destra con corona di spighe, nel rovescio Demetra stante con lunga tunica e mantello, nella mano destra porta una fiaccola, con la sinistra sostiene un lungo scettro, intorno, in alto, la scritta AKPAIOΩN. E’ probabile che questa emissione monetaria sia da mettere in relazione al culto di Demetra, massimamente sentito in Akrai e di cui rimane ancora una eccezionale testimonianza nelle sculture rupestri dei “Santoni”.


La coniazione delle monete testimonia, senza dubbio, l’autonomia politico-amministrativa ed una florida situazione economica di Akrai.


Ma nei secoli successivi la difficile situazione socio-economica della Sicilia nel primo periodo imperiale non risparmiò Akrai che, al pari di tante altre città dovette subire uno spopolamento.
La vita, seppur più lentamente, continuò nella cittadina come attestano le scoperte archeologiche e le sepolture di quel periodo. Purtroppo le fonti non menzionano Akrai nel tardo periodo Imperiale né negli anni delle invasioni dei vandali e dei goti.


Però, come afferma l’insigne studioso Luigi Bernabò Brea, nei secoli IV e V d.C. Akrai si afferma come il più importante centro cristiano della Sicilia Orientale, dopo Siracusa.


In effetti, la diffusione del cristianesimo è attestata da una enorme quantità di tombe e catacombe sia all’interno della stessa città, sia a Santa Lucia di Mendola (Mende), dove si affermò il culto di Santa Lucia e di Santa Germiniano, sia in diverse contrade del territorio acrense (Santo Lio, Camelio, Bibinello, Pantalica, Baulì).


Numerose sono le iscrizioni cristiane rinvenute e diverse le chiese rupestri note.
La Sicilia nel VI sec. d.C. fu definitivamente annessa all’impero bizantino; anche in questo periodo, sebbene in una fase di decadenza, Akrai risulta abitata e frequentata. La popolazione si era trasferita, in gran parte, in numerosi piccoli villaggi agricoli sparsi nel territorio acrense.

 

La vita della cittadina cessa nell’827 quando ad Acre si concentrarono le forze bizantine dell’isola per cercare di fermare l’avanzata araba e dar tempo a Siracusa di fortificarsi e prepararsi all’assedio. In questa circostanza o l’anno successivo, Acre fu messa a ferro e fuoco e distrutta per sempre. Dell’antica Acre si perderà il ricordo; nel XVI sec. se ne cercavano le vestigia in altri siti.


Il centro medievale sorse vicino all’antica Acre, su un piccolo e ben difeso sperone roccioso sottostante, in posizione strategica di controllo sul territorio e sulle vie di comunicazioni là dove sorgeva un “palatium” imperiale che sicuramente ha determinato il nome del nuovo abitato: “Palatiolum” od anche “Palatiolus”, come si trova nei più antichi documenti.
Qui, nei primi anni del regno normanno, venne edificato un castello che dal lato settentrionale si ergeva su un’inaccessibile parete rocciosa.


Intorno al castello si sviluppò, a Sud-Sud-Est, e con una particolare struttura urbanistica caratterizzata da strette strade a semicerchio e concentriche, il borgo. Inizialmente il borgo era protetto da una cinta muraria. L’enorme incremento urbano del XIII e XIV sec. determinò l’espansione dell’abitato in una grande area circostante. La cinta muraria non poté più seguire l’ingrandimento del paese.


Si pensi che già nel ‘500 Palazzolo, scendendo verso le moderne zone di espansione, aveva assunto, escludendo le moderne zone di espansione, l’attuale assetto urbanistico. E’ probabile che Palazzolo nel sec. XI appartenesse a Guilfrido, figlio del Conte Ruggero; nel XII sec., invece, faceva parte dei possedimenti di Tancredi o di uno dei suoi “barones”.


Proprio Tancredi nel 1103 donò la Chiesa ed il feudo di Santa Lucia di Mendola alla Chiesa di Bagnara, e l’anno successivo, 1104, il Casale de Montaneis (Bibino) e le relative terre alla Chiesa Siracusana, territori tutti limitrofi a quelli di Palazzolo.


Ma la più antica citazione di Palazzolo si legge nel testo arabo della “Geografia” di Edrisi – 1145 circa – riportata come “Balansùl”.


Balansùl non è vocabolo di origine araba ma adattamento arabo di un preesistente latino “Palatiolu(m)”, forma quest’ultima apparsa in una bolla di Papa Alessandro III nel 1169 ed in cui si fa riferimento alle diverse chiese esistenti, già allora, a Palazzolo.


Nel 1282 Re Pietro concesse Palazzolo, assieme ad altre terre, ad Alaimo da Lentini. L’anno successivo, 1283, la donazione venne riconfermata a condizione che Alaimo e la moglie Ma calda prestassero servizio militare di quattro cavalieri equipaggiati.


Palazzolo rimase sotto la signoria di Alaimo fino al 1287-88.
Nel 1289 Re Carlo II donò la terra di Palazzolo ed i suoi feudi a Carlo Santillis o Santellis (più certo Centelles).


Nella “descriptio feudorum”, datata intorno al 1330, “terra Palatioli et feudo Bibini” risultano infeudati agli eredi di Guglielmo Castellar. Nel 1343, signore di Palazzolo, è indicato Parisio de Castellar.


Negli anni successivi la “terra” è coinvolta nella guerra siculo-angioina; in una tregua del 1357 il “castrum Palacioli” è controllato dagli angioini.


Nel 1359 è riconquistata, per Re Federico, da Artale Alagona.


Nel 1360 Roberto de Castellar e la moglie Beatrice di Montaperto “barones Palatioli” sposarono la loro figlia Bartolomea con Matteo d’Alagona “cavallerizzo maggiore e consiliario” di Re Federico, appartenente ad una delle più potenti famiglie siciliane.


La baronia di Palazzolo che allora comprendeva i feudi di Bibino, i feudi minori di Bibinello e Falabia e i feudi di Pinita, Cugnarelli e Poi, venne data in dote allo sposo. In seguito alla rivolta dei baroni siciliani contro Re Martino I i beni degli Alagona furono confiscati (1392).


Nello stesso anno Re Martino I donò il castello, la terra e i feudi di Palazzolo a Ponzio d’Intenza e d’Alcalà, un valoroso comandante catalano. Questi morì in Provenza quattro anni dopo, lasciando unica erede la figlia Franzina.


Nel 1397 il Re d’Aragona confermò a Franzina l’investitura della baronia di Palazzolo a condizione che entro tre anni, dalla Catalogna si trasferisse in Sicilia e qui dimorasse. Ma Franzina non intendeva trasferirsi in Sicilia, quindi rinunciò alla baronia di Palazzolo, supplicando il Re d’Aragona di volerle concedere, in cambio, una giusta somma di denaro. Il Re d’Alagona accetta la richiesta e fece consegnare a Franzina, in cambio di tutti i beni di Palazzolo, la somma di ottomila fiorini d’oro.


In questo periodo (1397-98) il castello di Palazzolo venne assediato invano da Guglielmo Raimondo Moncada che, insieme ad altri baroni, si era rivoltato al Re Martino I. Nel 1400 il Re d’Alagona concesse la baronia di Palazzolo a Iacobo Campolo, “secreto” del regno di Sicilia.


Il Campolo, nel 1403, aderì alla rivolta del conte di Modica, Bernardo Cabrera. Ambedue rinforzarono le difese del castello di Palazzolo e vi si rifugiarono.


Lo stesso Re Martino I per sedare la ribellione fu costretto a condurre il suo esercito all’assedio di Palazzolo. L’assedio, data la forte posizione del castello, si protrasse per oltre due mesi senza risultati. Alla fine Bernardo Cabrera si sottomise al Re ottenendo il perdono anche per Iacobo Campolo, il quale salvò la vita ma non la baronia di Palazzolo che fu confiscata.


Così, nel 1405, la baronia di Palazzolo ritornò in possesso di Bartolomea Castellar e d’Aragona, la quale, nel 1407, la donò alla figlia Eleonora. Questa contraendo matrimonio con Alvaro Casaponti ed Eredia gli portò in dote la terra, il castello e i feudi di Palazzolo.

 

Non avendo figli, Eleonora con una donazione tra vivi assegnò il castello e la baronia di Palazzolo ad Artale d’Alagona e la baronia del Bibino Magno a Mazziotta d’Alagona, suoi nipoti. La stessa Eleonora, in molti documenti chiamata Berlingaria, dopo la morte di Alvaro, sposò in seconde nozze (1438) Pietro La Desma “milite e falconiere del Re”.


Ad Artale successe il primogenito Andrea il quale ottenne l’investitura nel 1479.
Questi sposò Elisabetta Santapau; dal matrimonio nacquero Artale, Ponzio ed Eleonora. Andrea d’Alagona morì lasciando i figli in minore età per cui, nel 1497, l’investitura toccò alla moglie Elisabetta per conto del primogenito Artale.


Nel 1533, in seguito ad una oscura congiura di palazzo, Artale d’Alagona venne ucciso nelle stanze del castello. Sembra che l’uccisione fosse stata ordinata dal fratello Ponzio, il quale, ritenuto colpevole, fu giustiziato a Palermo l’anno successivo.


Nella baronia successe così (investitura del 1534) la sorella Eleonora che in precedenza aveva contratto matrimonio con il milite catanese don Giovanni Bonaiuto. Il loro figlio primogenito Antonio Bonaiuto Alagona rilevò il titolo baronale e sposò donna Francesca Gulfis.


In questo periodo, Palazzolo ha una popolazione di circa 5000 abitanti ed è sicuramente un centro agricolo fra i più ricchi e prosperosi della Sicilia.


Nel 1552, in seguito ad un particolare contratto matrimoniale fra Artale Bonaiuto d’Alagona, figlio di Antonio, e donna Vincenza Lucchese, vedova De Caro, la baronia, di fatto, fu ceduta a don Matteo Lucchese, padre della sposa, barone di Delia, il quale, in cambio del titolo nobiliare si era accollato i debiti della baronia.


Nel 1571, la baronia, dopo la morte di Matteo Lucchese, ritornò ad Artale d’Alagona che ne prese l’investitura il 17 aprile 1573.


Ma oppresso, ormai, dai debiti fu costretto, nel 1579, a vendere tutti i beni di Palazzolo a Francesco Santapau, principe di Bufera, marchese di Licodia, per complessive 12.271 onze.
Don Francesco Santapau lasciò erede universale la moglie donna Imara Benevides che ottenne l’investitura il 20 giugno 1600.


Questa “domina” di Palazzolo acquistò dalla Magna Curia nel 1606 il “mero e misto imperio”, vale a dire il potere di amministrare, senza alcuna limitazione, la giustizia civile e criminale.

 

Alla morte di donna Imara doveva succederle il nipote don Vincenzo Ruffo, figlio di don Muzio e Camilla Santapau. Ma quello rinunciò in favore del fratello uterino don Gutterra Velasquez. A questi, per i grandi servizi resi ed i meriti acquisiti, per la nobiltà e consanguineità regale, fu concesso, nel 1662, il titolo di principe dello stato di Palazzolo.


Nel 1625, per la morte di don Gutterra, il principato di Palazzolo passò a don Vincenzo Ruffo di Calabria cui successe il primogenito Fabrizio (1632).


A questi successe il fratello secondogenito don Francesco il quale, per amore fraterno, donò (1667) il principato di Palazzolo al fratello germano don Tiberio che ne prese l’investitura il 4 giugno 1665.


La signoria dei Ruffo si concluse con l’abolizione della feudalità nel 1812.
In questo XVII secolo Palazzolo visse esaltanti momenti di lotte libertarie originate da pressenti richieste di giustizia e di affrancamento sociale; nello stesso periodò subì tristi calamità naturali che modificarono sicuramente lo sviluppo della vita economica e culturale del paese.


Nei primi mesi nel 1617, sotto la signoria dei Santapau, i palazzolesi tentarono di “liberare” il paese dal giogo feudale e farlo riconoscere come paese demaniale. Ma il tentativo, scoperto nella fase iniziale, fu bloccato e i fautori dell’iniziativa, dopo aver cercato scampo nella chiesa dell’Annunziata, furono incarcerati.


Il primo quarto di secolo può anche dirsi il periodo aureo dello sviluppo di Palazzolo: esisteva, infatti, una ricca economia fondata sull’agricoltura, sull’allevamento del bestiame, sulla produzione di olio, vino, miele, formaggi, ma anche di cotone, di lana, di tessuti.

 

Intenso era il commercio di questi prodotti mentre fiorente era l’attività dei ceti artigianali. Testimoniano l’esercizio di queste attività le “concerie” che si trovano nelle contrade di “Fontanasecca” e “Colleorbo” e le centinaia di frantoi e palmenti sparsi nei casali e nel territorio.
In questo periodo si edificarono il Convento delle monache benedettine, la “Badia”, ed alcune chiese mentre diverse furono ampliate: fra grandi e piccole se ne contavano trentaquattro; si effettuarono diversi interventi mirati a migliorare l’assetto viario e urbanistico del paese; si sistemò il Corso (l’attuale Corso V. Emanuele), utilizzato per cavalcate e palii; si aprì una nuova strada, l’attuale Via Acre.


All’inizio del’600 la popolazione palazzolese era formata da più di 6.000 persone; ma ecco come si distribuiva la popolazione nel XVI e XVII secolo:

L’andamento demografico segna chiaramente, ora con l’incremento, ora col decremento, i periodi di benessere economico e di sviluppo che quelli di carestia, pestilenza ed elevata mortalità. Dal 1548 la popolazione aumenta costantemente da 5.141 a circa 6.500 abitanti intorno al 1620-23. La peste del 1623 decima la popolazione con una morìa che le fonti dell’epoca indicano in circa 4.000 persone. Le grandi carestie degli anni ’70, connesse alla scarsità dei raccolti, causarono miseria e fame mai viste in Sicilia.


Crebbe a dismisura la mortalità, in particolare quella infantile che era già altissima; si diffusero le “maligne”, malattie epidemiche con migliaia di morti.


Nell’agosto del 1677, il popolo palazzolese, stremato dalla fame e dalla miseria, quanto adirato per le ingiustizie, si ribellò contro un arbitrario aumento del prezzo del frumento e quindi del pane. Una massa di rivoltosi incendiò e saccheggiò diverse case di amministratori e di benestanti, asportando dai magazzini frumento copiosamente ammassato. Con fermezza, 23 persone, i capi della rivolta, furono arrestate e successivamente due di esse furono strangolate, una fu appesa ad un albero nella piazza principale e l’altra, come era d’uso, fu squartata ed appesa “alli capi delle strade”.
Ma il terribile terremoto del 1693 fu sicuramente l’evento che ha modificato la storia del nostro paese spezzandone “la continuità della vita socio-economica e culturale”.


Circa 700 furono i morti mentre gravissimi risultarono i danni nelle campagne e in tutto il territorio. Il centro abitato in gran parte si sgretolò; caddero le chiese grandi e piccole, sparirono per sempre antichi monumenti ed opere d’arti, archivi, libri, documenti; scomparve gran parte della cultura e della storia di Palazzolo.
Anche il vetusto Castello normanno, dimora dei “baroni” di Palazzolo, fu distrutto: di esso rimangono ancora vestigia nella zona denominata, appunto, di “Castelvecchio”.


Ma il paese risorse nello stesso sito, casa per casa.


Il 1700 è il secolo della ricostruzione: edifici pubblici, case palizzate, chiese piccole e grandi e quelle sacramentali furono riedificate ancora più grandi e “imbellite” di prima.
Si normalizza la vita sociale ed economica e per la nuova Palazzolo ricomincia un periodo di benessere e di sviluppo socio-culturale.


Intorno alla metà del secolo, fiorì a Palazzolo l’”Accademia degli Acrensi Redivivi”, una associazione culturale che può considerarsi il simbolo della rinascita collegata alla storia ed alla cultura di Akrai “affinché gli uomini che fiorirono nella città di Acre risorgano gloriosamente in questa Palazzolo rediviva”. L’Accademia si fece promotrice di studi sulle composizioni poetiche di carattere sacro, sulle composizioni poetiche dialettali, sul romanzo storico e le ricerche storiche.


Non a caso Fra’ Giacinto, membro di questa Accademia, ha lasciato le prime notizie storiche su Palazzolo raccolte in un poderoso manoscritto che rimane un documento essenziale per tutti quelli che studiano la storia del nostro paese.


Anche il XIX secolo è un periodo importante della storia di Palazzolo. Nel 1812, come abbiamo già riferito, ha fine il principato di Palazzolo; il parlamento siciliano in quest’anno abolisce la feudalità. Cessa così, così, la bisecolare signoria dei Ruffo. Gli antichi feudi dell’Università, già polverizzati in minuscoli lotti enfiteutici, diventano le piccole proprietà del proletariato, mentre i grandi feudi baronali vengono venduti e spartiti alle emergenti facoltose famiglie della borghesia palazzolese (Musso, Iudica, Messina, Ferla, Zocco, Politi, Cappellani etc.).


L’800 vede un fiorire di attività nel campo delle lettere, delle scienze e delle arti mai visto prima. Da ricordare, all’inizio del secolo e fino agli anni trenta, l’attività e la figura del barone Gabriele Iudica, un archeologo e scopritore dei più importanti monumenti acrensi. Ha lasciato un prezioso volume “Le antichità di Acre”, edito nel 1819, in cui narra, appassionatamente, le campagne di scavo condotte fino ad allora ed illustra i monumenti e i reperti rinvenuti.


Vincenzo Messina, letterato e poeta, pubblicò gli “Idilli di Gessner” nel 1841 e Giuseppe D’Albergo le sue “tragedie” nel 1842.


Nel 1868 viene fondata l’Accademia del Progresso; Vincenzo Messina di Bibbia ne è il promotore ed il presidente. L’accademia riunisce tutti gli intellettuali, i professionisti, gli uomini di cultura locali ed annoverava fra i soci ordinari i più autorevoli uomini della cultura e della politica siciliana, mentre soci onorari erano Cesare Cantù, Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo.


L’Accademia fu un centro di promozione culturale: moltissimi i soci che si impegnarono nella letteratura, nella poesia, nelle ricerche storiche ma anche nelle ricerche scientifiche. Nicolino Zocco, Nicolò Messina, Gaetano Italia Nicastro si distinsero nelle ricerche letterarie e storiche; Vincenzo Calendoli, proprio in questo periodo, oltre a varie scoperte scientifiche, stava mettendo a punto le sue intuizioni sulla macchina compositrice, “la simultanea”.


Nel 1889 Nicolò Messina fonda l’Accademia degli Ottimati, altro centro culturale, mentre già da prima, 1874, si era costituita la Società Operaia “Ordine e Lavoro”.

Al fiorire delle lettere e delle scienze s’accompagnò anche lo sviluppo delle arti: Paolo Tanasi, buon pittore nella prima metà del secolo, i figli Giuseppe e Giovanni, anch’essi pittori, nella seconda metà; le loro opere si trovano in diverse chiese di Palazzolo e dei paesi limitrofi; Sebastiano Giuliano ed il figlio Giuseppe, valenti scultori già nel 1833, a cui successero un altro Sebastiano ed un altro Giuseppe, padre e figlio, anch’essi scultori del legno e della pietra.


Nella lavorazione artistica del mobilio si affermò la scuola dei Costa.
Giuseppe Giuliano, “Don Puddu”, ha scolpito anche agli inizi di questo secolo ed ha sicuramente influito sulla formazione artistica di una nutrita schiera di scalpellini palazzolesi presenti nel primo trentennio del ‘900.


Si formarono vere e proprie scuole d’intaglio grazie anche alle numerose commesse sia nel nuovo cimitero sia nella costruzione dei nuovi palazzotti in stile liberty che numerosi sorgevano nel paese.


Fra i più valenti maestri del primo ventennio, veri capiscuola, si devono ricordare Nino Gibilisco, Nuoli Buccheri, Paolo Talleri: intorno a questi si formarono numerosi e valentissimi scalpellini.


Nel dopoguerra il paese attraversò lunghi anni di crisi economica che causò la prima grande emigrazione nelle Americhe. Lo stesso accadde nell’ultimo dopoguerra, fra gli anni ’50-’60, con le emigrazioni nei paesi europei.

Oggi Palazzolo è un paese civile, pulito, accogliente, forse troppo esteso nel territorio con i suoi quasi diecimila abitanti. I palazzolesi sono, generalmente, persone riservate ed educate, rispettosi dei diritti degli altri, ospitali con i forestieri ed i turisti.

 

All'interno del parco archeologico, dominante la valle dell'Anapo si trova il Teatro Greco. La sua scoperta si deve al barone Gabriele Judica, nel 1824. Uomo di cultura, amante dell'antico, studiò e salvaguardò i beni archeologici per le generazioni future. La sua costruzione si fa risalire intorno al II sec. a.C. durante il regno di Ierone II. Una stretta galleria dà la possibilità di collegare la cava del teatro al Bouleuterion. Questo edificio di modeste dimensioni era un luogo di raduno per le assemblee del senato acrense.

 

A ridosso del teatro si trovano i resti del Tempio di Afrodite. A Sud-Est le latomie dette dell'Intagliata e dell'Intagliatella, usate inizialmente come cave di pietra per la costruzione dell'antica Akrai, in seguito divennero luoghi di sepoltura. Sul pendio della città antica sorgono altre latomie conosciute come Templi ferali, luoghi di venerazione. Ai piedi del colle una serie di bassorilievi scolpiti nel calcare documenta il culto degli acrensi nei confronti della dea Cibele o Magna Mater, riconoscibile per il timpano, il Modio e i leoni. I rilievi risalenti alla metà del III sec. a.C. scoperti anch'essi dal barone Judica (nel 1809)), sono 12 e nel gergo locale vengono denominati "Santoni". Scolpiti su una parete che si estende per circa 30 metri, sono di fattura rozza ma testimoni di valore storico e religioso. Lanecropoli della pineta occupa la sommità pianeggiante di detta contrada, ed è visibile dalla strada panoramica.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 

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