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   La Sicilia tra favole, miti e storie del presente.

   Una leggenda, una di quelle leggende che il seicento creava con la stessa facilità con la quale verseggiava un poema, avvalendosi di qualche oscuro ed incerto passo di uno storico o di un poeta antico, narra di Cam, figliolo di Noè e delle sue avventure dopo il diluvio, quando assieme ai fratelli ebbe il compito di ripopolare il mondo.

   Cam, narra questa leggenda, avuta dal padre l’Africa come suo dominio, fu pronto a partire, con la moglie Sena e con tutte le altre persone della sua famiglia, per prenderne possesso. Ma navigando verso l’occidente, sia perché poco pratico del mare, sia perché sviato dai venti, fu portato più a nord del luogo ov’era diretto e capitò in Sicilia, alle radici dell’Etna, sul promontorio che oggi indichiamo Capo dei Mulini. E qua, non sapendo che far di meglio, visto che l’isola era ancora del tutto deserta, aiutato dai Giganti o Ciclopi, che con lui eran venuti, si diede a fabbricare in faccia all’oriente, una città, la prima che in Sicilia avesse vita, alla quale, da se e dalla moglie, diede il nome Camessena.

   Il seicento non fu per nulla il secolo della metafora ardita e dell’iperbole sfacciata, e poichè si metteva ad inventare l’origine di una città, risaliva, come se nulla fosse, sino all’epoca del diluvio biblico, al 2348 a.C. o poco dopo, ai primi anni in cui i capostipiti delle nuove razze umane andavano a popolare i tre soli continenti di cui gli antichi avevano cognizione.  Del resto, la tradizione della venuta di Cam, figlio di Noè, in Sicilia non era una creazione seicentesca, ma doveva essere pervenuta a quel secolo dai tempi medievali da quando i poveri e letterali studi di certi libri avevano del tutto fatto perdere, non dirò il senso della critica storica, che ancora non esisteva, ma addirittura il buon senso.

   Ma verso la metà del seicento, la Sicilia, che già s’era convertita completamente ai vacui e gonfi costumi spagnoli, più che studiare le glorie patrie, pensava a farsene vanto. Filippo IV° regnava per la grazia di Dio e mentre il Sant’Uffizio strozzava il pensiero ed i Vicerè  smungevano le tasche dei cittadini (nulla è cambiato), si divertiva a concedere diplomi di nobiltà a quanti avevano mezzi per pagarli, facendo baroni tutti gli arricchiti villani ed elevando a principati le antiche contee stabilite dalle costituzioni normanne, pur di raccogliere quanti più scudi gli era possibile.

   Conseguenza di ciò era la creazione di una serie genealogie inventate apposta per giustificare queste dorate nobiltà, e quindi del bisogno di respingere sino ai tempi più antichi l’origine dei paesi nostri, per fare che sino ad essi si potesse risalire con gli antenati di quei siciliani che lo spagnolismo rendeva pazzi o quasi.

   Per maggior disgrazia poi e per incoraggiare queste invenzioni, c’era un esempio, un esempio che tutti conoscevano e ripetevano per vero, quantunque bastasse la più piccola delle riflessioni a farlo vedere falso. Non s’era, per nobilitare Roma, creata una leggenda stranissima e fatto venire in Italia Enea della stirpe reale di Troia? Ebbene, poiché dall’oriente si originava la nobiltà di Roma, da qualche altro paese di quelle regioni dovevasi far venire un oichista per tutte le città che si volevano rendere nobili e famose, e nell’oriente si ricorreva a cercare tutta una serie di principi e di re per incomodarli e farli venire in Sicilia, ma solo sulla carta.

   Spuntavano quindi Tauro e Mena principi di Cananea che nelle alture sovrastanti alla spiaggia di Nasso (Naxos) fondavano Tauromena (Taormina); spuntavano Mile e Lassio del sangue di Romolo che sul Chersoneso siculo iniziavano Milasso; spuntavano Artenomo e Artenomasia re dell’Asia che sulla piana di Milazzo fondavano Artemisia; spuntava Castoreo, re Judicense che sul Torace dava inizio a Castroreale. Vero è che poi gli storici antichi di queste città non avevano lasciato ricordo, è vero ancora che di questo enorme esercito di re e principi che percorreva la nostra isola a fabbricarvi città e castelli, nessuno aveva mai scritto che fossero mai esistiti.

   Ma ciò non importava. C’era qua e là nei poeti latini e greci qualche nome o qualche fatto che per la somiglianza bastava ad ingenerare un certo dubbio e in base a l’ingenuità del tempo procedeva sicura a creare cronache, storie e narrazioni, così come il re creava principi e marchesi.

 

 Il brano è tratto dal libro di Salvatore Raccuglia “Storia di Aci”

con presentazione del prof. Cristoforo Cosentini.

 

 
 
 
 
 
 
 
 

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