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   Alla storia compiacente dei filosofi greci, succede la “cultura compiacente” degli “storici odierni. Anche se durante la fine dell’ottocento si era visto un movimento, culturalmente meno “corrotto”, da influenze “baronali” e da indirizzi politici. Inutile ricordare che tutto ebbe inizio con l’opera dei copisti toscani (una italica rappresentazione del copia/incolla e personalizzazione della cultura altrui) che toscanizzarono quella lingua nobilitata definita “Siciliano Illustre” e tutto dopo il 1250 periodo in cui fioriva (1230/1266) la poesia trobodorica che contava circa 25 poeti alla corte di Federico II di Svevia. I più noti sono stati Giacomo da Lentini (l’amor cortese), Pier delle Vigne e Cielo d’Alcamo. Negli anni successivi tutti i poeti, sotto l’influenza della poesia siciliana, anche se operavano al centro e nord italia, fino ai creatori del Dolce Stil Novo definiti stilnovisti, furono chiamati siciliani.

   Perché questa introduzione alla narrazione canonica di un sito ritenuto preistorico. Perché in esso si evince l’opposto e lo vedremo scorrendo l’articolo.

   Alla storia compiacente praticata dai filosofi greci, succede la “cultura compiacente” (quella dei nostri giorni) che viene spacciata per veritiera a seconda delle convenienze di scopo. È il caso delle origini e dell’uso di certi siti o di ciò che in essi è stato ritrovato di cosiddetto “valore archeologico”. Sulla scorta di queste “convenienze”, vengono ricreati sempre nuovi format fondati sul copia/incolla senza mai una verifica o incroci dei dati pur presenti in siti istituzionali, su wikipedia e siti “vaganti” per la rete. Caso dei casi è Santa Venera al Pozzo (Acicatena); dalle sintesi sempre più sintesi oppure dall’ampliata narrazione canonica apprendiamo che si sarebbe trattato di un bivacco per i forestieri “romani”, completo di “vasca idromassaggio”, abbeveratoio per i cavalli e “pithos” (grossa giara per raccogliere l’acqua da bere, più pochi spiccioli per i commerci del tempo.

   Cosa penso io. Qui si venerano ruderi, macerie, resti, rovine, detriti e calcinacci lasciati dai più feroci e sanguinari aggressori dei popoli di Sicilia, i barbari romani; solo schiavitù, oppressione ed esproprio della proprietà privata a tutto vantaggio di Roma. Continuate ad osannarli, amateli pure, celebrate le loro agiatezze e le loro soverchierie. Sappiamo bene che assediarono la Sicilia per tre loro motivi fondamentali: politici, strategici ed economici usando i sicelioti come schiavi per tutto. Non si approfondiscono e valorizzano culture e tantomeno civiltà precedenti, 3500 anni di preistoria svanita nel nulla.

   Punto di partenza è la strada consolare Pompeia (o Pompea) e sito di Piano Reitana (Santa Venera al Pozzo) Acicatena.

   Premessa: I primi costruttori di strade sul suolo italico furono gli Etruschi. La via Clodia ricalcò almeno in parte un'importante percorso etrusco che collegava Caere (Cerveteri) a Volsini novii (Bolsena), e la via Cassia, da Roma a Cortona fu prima etrusca, e così la via Aurelia che costeggiava il Tirreno.

   Esistevano presso i Romani vari tipi di strade, dalle strade di tronchi, alle strade scavate nel tufo come fecero gli etruschi (ma che i Romani poi ripavimentarono), alle strade pavimentate in acciottolato (galeratum), alle strade in basolato romano.

   Sicilia: La strada Consolare Pompeia (o Pompea) era una via che congiungeva Messina a Siracusa percorrendo a tratti la costa e a tratti internandosi verso i centri abitati. Dal periodo romano sino al XIX secolo la strada è stata la spina dorsale viaria del versante ionico della Sicilia. 

   Questa strada venne costruita dal Console Gneo Pompeo, a riprova dell’antichità di Messina e della sua importanza nell’epoca delle guerre civili romane che precorsero l’Impero. Al tempo della lotta fra i Popolari di Gaio Mario e gli Ottimati di Silla la Sicilia venne controllata dai mariani, che impedirono l’afflusso di frumento all’Italia controllata da Silla, il quale inviò Pompeo a recuperare l’isola.

   A quel periodo deve risalire il rifacimento del tracciato tra Messina e Siracusa, la strada che ancora oggi in una porzione ne porta il nome di Pompeia. che ha favorito la nascita e lo sviluppo di alcuni centri delle città orientali dell'isola, fra cui Messina, Taormina, Giardini-Naxos, Giarre, Acireale (non ci sono elementi che provano una presenza romana nel sito dell’attuale città), Catania, Augusta, Siracusa. Il tratto della strada limitrofo alla antica città di Messina e ai villaggi vicini veniva chiamato Dromo (dal greco dromos). 

   Prima di arrivare a Catania il tracciato consolare seguiva un percorso a mezza costa che attraversava le località di Piano della Reitana e Nizzeti (qui ritrovamenti Siculi ma parte del territorio è oggi cementificato), sito prima occupato dai Sikani (cultura del Castelluccio e poi dai Siculi fino al 440 a.C. momento della penetrazione Siceliota nei luoghi), per immettersi nel capoluogo attraverso la porta di Aci. Il tracciato originario, spianato prima dai Sikani e migliorato dai Siculi in modalità sterrato ed in parte semipavimentato, è stato poi oggetto di ampliamenti e modifiche a partire dal XIX secolo. Oggi la Strada Statale 114 Orientale Sicula ne ricalca in parte il tracciato. In sostanza, detta strada, faceva il cosiddetto periplo (circumnavigazione costiera) dell’isola.

   In apparenza nessuna correlazione diretta tra il sito di Capomulini e Piano Reitana in quanto il primo risalirebbe al I° sec. d.C. e il secondo di datazione incerta, visto che la costruzione della strada consolare Pompeia sarebbe iniziata, sulla carta, nel 210 a.C. ma i romani erano lì dal 264 a.C. Ciò significhebbe che prima costruirono la strada e poi scesero a mare per costruire il tempietto? I ritrovamenti al largo di Capomulini che documentano ancore di pietra appartenenti a navi di trasporto romane, fanno invece pensare che nel sito di approdo, ovvero Capomulini, (II° sec. a.C.) fu prima costruita una fontana votiva ed in seguito trasformata in tempietto, così come descritto dall’ing. Giuseppe Tomarchio attento analizzatore del sito.

   Viste poi le caratteristiche e la posizione del sito Reitana altro non poteva essere che una sorta di bivacco del sistema di "stazioni di servizio" che funzionava per veicoli e animali: le mutationes, praticamente stazioni di cambio. Si trovavano a intervalli di 12-18 miglia. Qui si potevano comprare i servizi di carrettieri, maniscalchi e di equarii medici, cioè veterinari specializzati nella cura del cavallo. I materiali e le monete ritrovate nel sito lo comprovano.

   Lionardo Vigo insisteva nel dire che le cosiddette terme romane non sono mai esistite così come descritte, si tratterebbe di un falso storico? Impossibile che potessero sorgere delle terme così a ridosso di una strada tanto frequentata. In effetti esiste una fantasiosa ricostruzione, assai più recente, di fatti che riguardano l’origine del sito, ribadisco assai fantasiosa e mai documentata: santa Venera al Pozzo ma, i dettami del sant’uffizio non potevano essere né verificati tantomeno opposti o discussi. Era il tempo in cui si compravano e si vendevano indulgenze, al pari dei titoli nobiliari.

   Tracce della via Pompeia: Questa ricerca, che si è sviluppata nell'arco di tre anni, riguarda la ricostruzione del tracciato viario romano tra Messina e Siracusa, quella strada che Cicerone fugacemente cita come via Pompeia. Poiché di essa non esiste altra traccia nelle opere antiche, l'indagine è stata soprattutto concentrata sulla ricognizione archeologica, al fine di individuare sul terreno tracce visibili dell'antica via. L'ipotesi finale è stata successivamente "costruita" da un lato, sull'ubicazione delle emergenze archeologiche note da bibliografia e, dall'altro, sull'analisi diretta del territorio attraversato dalla strada, che si snoda attraverso tre province e oltre trenta comuni, per una lunghezza totale di circa 150 chilometri.

   Da considerare che una legione in marcia non aveva bisogno di un punto di sosta, perché portava con sé un intero convoglio di bagagli e costruiva il proprio campo ogni sera accanto a una strada. Spesso attorno alle mansiones sorsero campi militari permanenti o addirittura delle città. I viaggiatori privati invece avevano le cauponae, spesso vicine alle mansiones, ma più umili e mal frequentate.

   (Fonte CNR): In epoca romana, invece, il sito di Santa Venera al Pozzo sembra proprio un luogo di sosta militare (statio) - fonte proprio l’Acium dell’Itinerarium Antoninii, ai margini della strada consolare Pompeia, la magna via che collegava Catania a Messina - ricco di servizi.

   Rilevo, sul depliantino messo in giro dalla gestione del sito, con i loghi Unione Europea, POR Sicilia e Regione Siciliana - Assessorato dei Beni Culturali, quindi realizzato con fondi pubblici, errori di datazione, inesattezze, ipotesi senza supporto di verifica, falsi storici e congetture decisamente banali.

Adesso leggetevi la narrazione canonica.  

 

   Area archeologica di Santa Venera al Pozzo.

 

   L'area archeologica di Santa Venera al Pozzo è un sito archeologico nel comune di Aci Catena, in provincia di Catania.

 

   La storia del luogo è lunga e piena di fenomeni sociali, economici, politici e parte da un insediamento di età ellenistica in un’area ricca di sorgenti e corsi d’acqua.


   Fin dall’antichità le popolazioni si sono  sempre insediate in prossimità di luoghi dove c’era ricchezza d’acqua e in  questo luogo  vi erano sorgenti di cui una sulfurea.

 
   La presenza nel luogo di enormi quantitativi d’acqua ha determinato nel corso dei secoli la localizzazione nel posto, di strutture che potevano contribuire al suo sfruttamento: le terme, il pozzo, i mulini, le canalizzazioni, l’ospedale  e gli edifici dedicati al culto.


   Ancora molto tempo prima del culto di Santa Venera, sotto la “timpa” davanti la facciata principale dell’attuale chiesa dedicata alla Santa, doveva già essere presente un centro cultuale attestato  dal ritrovamento  di statuette fittili legate al culto di Demetra e Kore, divinità protettrici della terra e dell’agricoltura. 

 

   Sul sito affiora una sorgente d'acqua sulfurea, originaria dal vulcano Etna e sfruttata dalle moderne terme di Acireale: si tratta di insediamenti romani, soprattutto terme. Secondo la tradizione sul luogo fu decapitata santa Venera durante le persecuzioni romane contro i cristiani : la sua testa fu gettata dai soldati romani nel pozzo delle acque termali, ritenuto miracolo nel Medioevo. Nella zona fu eretta nel 1300 una chiesa con una statua lignea della santa, con una vasca marmorea, probabilmente di reimpiego dallo stesso sito archeologico.

 

   Furono i Greci a trovare una sorgente a bolla di acqua benefica e vi costruirono dei locali probabilmente a scopo termale.

 

   Una volta giunti i Romani tali edifici furono abbattuti e sulla loro base furono erette delle strutture termali di cui oggi sono rimasti i ruderi risalenti ad un periodo posteriore al I secolo. Come era antica consuetudine le terme erano costituite da diversi ambienti tra di loro collegati: una prima stanza, della quale non si sa se fosse coperta o meno, costituiva un luogo di incontro dove si parlava, giocava, commerciava; questa era seguita da una seconda, adibita a spogliatoio, dalla quale si poteva passare o al Frigidarium (per un bagno freddo) o al Tepidarium il quale, a sua volta, comunicava con il Calidarium. Il Tepidarium e il Calidarium conservano ancora oggi la caratteristica volta a botte, riscontrabile anche negli edifici termali di Ercolano e Pompei.

 

   I due locali presentavano un doppio pavimento e di quello superiore non è stata trovata alcuna traccia perché era presumibilmente in legno. Tale pavimento era sorretto da colonnine di mattone, Suspensurae che sono state rinvenute su quello inferiore e, il fatto che ci sia stato un doppio pavimento, è dimostrato anche dal livello della soglia nei due ambienti. Il doppio pavimento e il sistema delle suspensurae (ingegnosa trovata di Sergio Orata, un commerciante di ostriche del I secolo originario di Baia, (località termale) consentiva un'efficiente circolazione dell'aria calda (prodotta da cataste di legna che gli schiavi dall'alba iniziavano a bruciare) attraverso le scanalature.

 

   L'aria calda saliva lungo una conduttura a forma di arco e riscaldava anche il Calidarium le cui pareti laterali, per evitare di disperdere il calore, presentavano una bordura in battuto di coccio che sigillava ermeticamente l'ambiente. In questa stanza vi era, inoltre, una vasca per il bagno caldo e una fonte per le abluzioni. Sia il Tepidarium che il Calidarium presentano, come già detto sopra, un soffitto con volta a botte (ancora oggi ben conservato) sulla cui superficie sono distribuite una serie di fori, sfiatatoi dai quali usciva il vapore in eccesso. Nell'area archeologica sono ancora visibili i segni di un tempietto, forse dedicato al culto della dea della bellezza Venere; accanto, invece, i resti di un semplicissimo mosaico e di una grande vasca con la base in battuto di coccio, presumibilmente usata come piscina o per l'allevamento di pesci.

 

   All’estremità orientale del fondo, 160 metri più a nord delle Terme, lo scavo archeologico ha portato all'individuazione di un edificio di cui sono stati esplorati finora 37 ambienti, di dimensioni variabili tra i 9 e i 32 m², per un'estensione di un m² 1700. Sono stati messi in luce. Legati tra loro, i muri perimetrali del lato orientale ed occidentale, per metri 25, e dei lati settentrionale e meridionale esplorati per metri 32. Dei 37 ambienti individuati, in alcuni casi comunicanti tra di loro, un grande vano centrale sembrerebbe avere svolto la funzione di corte interna a cielo aperto. Dall'esame delle tecniche costruttive impiegate si ricava la presenza di preesistenti fabbricati, che dovrebbero essere abbandonati o distrutti intorno al 280 a.C., le cui strutture furono parzialmente riusate. I muri, costruiti in pietrame irregolare a secco, in alcuni casi fungono da fondazione agli spiccati di una costruzione realizzata in epoca successiva in muratura ordinaria di pietrame naturale legato da malta di calce. Di particolare interesse è il vano A il cui lato nord si imposta direttamente su un muro a secco che insieme ad altri tre, costruiti con la stessa tecnica e tra loro legati, costituisce la parte più consistente finora rinvenuta della fase più antica. Lacerti di muri della stessa fase rimasero seppelliti, all'interno di quasi tutti gli ambienti dell'edificio 1, in strati di terra che hanno restituito, oltre a frammenti di età greca arcaica, vasellame a vernice nera ed acromo databile al primo ventennio.

 

   Allo stato attuale della ricerca archeologica si può affermare che l'edificio 1, costruito dopo il 280 a.C., era probabilmente in stato di abbandono quando su di esso, all’inizio del IV secolo d.C., si impiantò un'officina per la produzione di laterizi. All'esterno del muro perimetrale est i resti di una colonna in muratura, con il plinto in pietra lavica e fusto in mattoni anulari, e numerosi frammenti di tegole, sia piane con listelli sia coppi, lasciano pensare la presenza di un portico aperto verso il terreno retrostante forse destinato ad orto. Il rinvenimento di frammenti di ceramica a vernice rossa di produzione italica ed africana nella sua tricea di fondazione e l'esame della tecnica edilizia utilizzata fanno datare la costruzione del pozzo ala fine del I secolo.

 

   All'interno dell'edificio 1, già in stato di abbandono, nella prima metà del IV secolo fu impiantata un'officina per la produzione di vasellame d'uso comune, di anfore e di laterzi, della quale rimangono ben conservate tre fornaci circolari del tipo verticale. Alcune vasche per contenere l 'argilla, condutture e piani per la lavorazione del vasellame e dei laterizi. L'approvvigionamento dell'acqua era garantito dal pozzo esistente a nord dell'Edificio 1. Della fornace più grande si conserva la camera di combustione con i sostegni del piano di posta del carico da cuocere, costituiti da muretti radiali. Interessante il rinvenimento, alla loro base, di attrezzi di ferro probabilmente caduti attraverso i  fori del sovrastante piano di cottura. La camera di combustione e il prefumio erano interrati rispetto al piano di calpestio esterno, così da rendere la struttura stabile e resistente alle ripetute escursioni termiche alle quali era sottoposta e da attenuare le dispersioni di calore. Inoltre l'ingresso della camera di cottura della stessa quota del piano esterno facilitava il carico e lo scarico dei materiali a cuocere.

 

   Delle altre 2 fornaci, più piccole, si conservano le camere da combustione, costruite una con grandi frammenti di tegole piane con listelli, sovrapposte le une alle altre e l'altra in mattoni. Per tutte le fornaci la forma circolare fu certamente adottata a fine di garantire un migliore tiraggio, utile al raggiungimento di una temperatura omogenea all'interno della camere di cottura, ed il loro orientamento scelto in modo da sfruttare al meglio le correnti del vento. Le dimensioni della fornace grande, la quantità di laterizi rinvenuta all'interno del vano di combustione e nel vano di servizio del prefurium ed il ritrovamento di materiali malcotti, ipercotti e di scorie vetrificate, inducono a presupporre la destinazione alla produzione di questo materiale.

 

   Le monete rinvenute all’interno dell’area archeologica di Santa Venera al Pozzo sono ordinate cronologicamente dalle più antiche di età greca classica ed ellenistica, relativa alle zecche di Messana e Siracusa, a quelle di età tardo romana dello stabilimento industriale. Spicca tra tutte, per il suo stato di conservazione, un bel oricalco di Marco Aurelio. Seguono alcune monete di età bizantina, medievale e moderna recuperate negli strati superficiali, ampiamente manomessi dai lavori agricoli che si effettuavano nel fondo, sia nell'area immediatamente circostante l’Antiquarium sia negli ampi terrazzamenti dei settori settentrionale e meridionale.

 

  “Narrano le leggende degli antichi Greci che, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio del dio della terra Zeus con la dea madre Era, al banchetto si presentano tutti gli dei con i loro doni. Gea , dea della terra e delle piante, fa crescere davanti agli occhi della sposa un meraviglioso albero dai frutti d’oro. Era ammira l’albero con i suoi frutti splendenti e ritenendolo particolarmente prezioso lo fa portare nel giardino degli Dei sorvegliato dal serpente a due teste Ladone, che non dorme mai, e curato dalle Esperidi.”

 

Bibliografia canonica: M. Donato, C. Cosentini.

 
 
 
 

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