Il Tempietto Romano di Capomulini.
(vedi foto)
La
scoperta del basamento di un tempietto nella zona archeologica di Santa Venera
al Pozzo, ha suscitato un notevole interesse ed ha conferito all’antico
complesso una ben più significativa rilevanza.
Inizia così la descrizione del sito, l’ing. Giuseppe Tomarchio responsabile
della sede acese dell'Archeo Club d'Italia. Una descrizione precisa, argomentata e
frutto di certosina ricerca e documentazione riportata nel capitolo “Il
Tempietto Romano ed i resti neolitici di Capomulini”. Non ometterò alcun
passaggio anche perché priverebbe il lettore di parti importanti del percorso
storico descrittivo e culturale.
Lo scopo degli scavi era quello di scandagliare, mediante opportuni saggi, il
sottosuolo adiacente alla struttura emergente alle antiche Terme per individuare
eventuali nuove strutture ancora sepolte. L’opportunità di simili ricerche,
auspicate da tempo,era intimamente connessa alla necessità di giungere ad una
più facile lettura delle strutture murarie e quindi ad una più chiara
interpretazione della funzionalità dell’impianto termale dato che esso presenta
evidenti caratteristiche di atipicità.
Il ritrovamento del basamento del Tempietto è stato possibile a seguito di un
saggio effettuato in una sopraelevazione del terreno posta a qualche decina di
metri dall’edificio termale. In verità era visibile già da tempo, in prossimità
di un gran cumulo di terra, una struttura muraria emergente dal terreno che
aveva attirato l’attenzione per la sua forma e per la tipologia della sua
composizione. Trattavasi infatti di una struttura muraria con risega in opus caementicium circa 1,50 metri. Sporgenza evidentemente vistosa.
Con l’allargamento dello scavo del saggio iniziale, è così venuto alla luce il
basamento di un tempietto, col suo asse maggiore nella direzione est-ovest e
munito di due gradini. Le dimensioni in pianta di basamento, che è quasi
interamente realizzato in opus caementicium con qualche blocco monolitico in
pietra lavica ben squadrato alla base, sono di m. 9,80 x m. 6,71. Sul livello
del piano del pavimento, che purtroppo si presenta molto rovinato, sono visibili
sul margine ovest tracce della base del muro posteriore della cella che conserva
ancora, nella sua faccia interna, e precisamente nello spigolo di base, minute
tracce di rivestimento in lastre marmoree.
In mancanza ancora di specifici studi sul monumento e di valutazione dei reperti
ritrovati e custoditi a cura della Soprintendenza, non è opportuno azzardare
anticipazioni interpretative. Si può comunque ipotizzare, da una valutazione
sommaria della struttura e dell’esame della composizione dell’opus caementicium,
che il tempietto potrebbe risalire all’età repubblicana e forse essere stato
dedicato verosimilmente a Venere, divinità propiziatrice della bellezza e
dell’integrità fisica. Tale ultima congettura scaturirebbe dalla vicinanza del
tempio all’antica fonte della salubre acqua sulfurea.
Il ritrovamento del basamento del tempietto di Santa Venera al Pozzo ha
richiamato immediatamente alla memoria l’esistenza del vecchio rudere, poco
noto, trascurato e abbandonato esistente in prossimità del non lontano
porticciolo di Capo Mulini. Le antiche vestigia del monumento ricadono in
un’area di rilevante interesse archeologico sia per la presenza di alcune
sepolture arcaiche ma specialmente per il ritrovamento della Testa marmorea
attribuita a Giulio Cesare ed a suo tempo oggetto di studio del Boehringer (Der
Caeser von Acireale, Stuttgart 1933) e per l’Acroterio ricordato dal Vigo e
recante il nome del dittatore.
Il diffuso dubbio sull’alternativa di interpretazione tra mausoleo e tempio può
considerarsi quasi definitivamente decaduto.
La parte settentrionale del tempietto, che è la più arcaica, risalendo essa,
secondo l’archeologo palermitano Guido Libertini, (da notare che l'archeologo
Guido Libertini, nel gennaio del 1939,
viene nominato alla direzione della Reale
Scuola Archeologica Italiana di Atene al posto di Alessandro Della Seta). al II°
Sec. A.C., è caratterizzata da un corpo centrale a pianta rettangolare
realizzato in opus caementicium stratificato e ingabbiato su tutti e quattro i
lati da una struttura perimetrale in opus quadratum realizzato con grossi
blocchi basaltici squadrati. Gli unici blocchi lavici dell’opus quadratum
rimasti in situ sono quelli disposti apparentemente come gradoni di una
scalinata che scandisce la zona più arcaica da quella più recente. Tutti gli
altri blocchi sono stati asportati in epoche diverse per successive
realizzazioni tranne alcuni, già notati dal Libertini e ancora giacenti in
prossimità della base del tempietto.
Nella sua parte sommitale, molto degradata, la struttura presenta tenui tracce
della cella realizzata in signinum. Sull’estremo limite settentrionale del
basamento del tempio, incassato nella struttura muraria, si conserva ancora un
vano ipogeico, apparentemente privo di apertura verso l’esterno ed interpretato
come “favissa”.
Trattasi in effetti di un vano rettangolare con dimensioni in pianta di m. 2,40
x 1,15 delimitato da una cordonatura in blocchi lavici parzialmente ancora
giacenti in loco e con piano di fondo leggermente inclinato e terminante, nel
punto più basso, con un avvallamento a forma di pozzetto. Sui margini delle
pareti si conservano ancora tracce di lastre marmoree che dovevano rivestire il
vano.
In occasione dello sterramento del monumento, lo scavo si è protratto sino alla
base della struttura ed è così venuta alla luce una tubazione in cotto con
diametro interno di cm 11 che si diparte dal fondo del pozzetto verso il basso.,
questo particolare, sfuggito a suo tempo all’indagine eseguita dal Libertini,
unitamente all’inclinazione del piano di fondo del vano ed alla presenza di
rivestimenti marmorei, può offrire una più corretta interpretazione del vano,
potendosi, in esso individuare una vaschetta destinata ai riti sacrificali o a
sacri lavacri.
Il corpo meridionale del tempietto, costruito certamente in epoca successiva e
probabilmente, secondo il Libertini, negli ultimi anni della Repubblica, risulta
chiaramente appoggiato e aderente al preesistente. Si può agevolmente intuire
che tale evoluzione morfologica del tempio sia stata dettata dalla necessità di
ampliare il tempio e conferire ad esso maggiore rilevanza estetica ed
architettonica dato che sul suo fronte, rivolto a mezzogiorno e prospettante
sulla riva del mare, è ancora visibile una imponente gradinata detta crepidoma.
La struttura muraria del corpo aggiuntivo è ben diversa da quella della parte
più arcaica. Essa infatti è caratterizzata da un conglomerato con struttura più
irregolare, con grosse scaglie di pietra lavica e totale assenza di quelle
gettate regolari e stratificate ben evidenti nel corpo a nord.
Nella sua relazione descrittiva, Guido Libertini, accennando ad alcuni blocchi
di basalto rinvenuti vicino al basamento ed ancora ivi giacenti che presentano
su di una faccia una specie di anathyrosis, ipotizza la presenza nel tempio di
un pronao tetrastilo ma le colonne non furono mai ritrovate. Con l’intento di
rintracciare i blocchi basaltici mancanti dalla struttura del basamento e le
colonne, si è ritenuto opportuno scandagliare anche i terreni adiacenti al
monumento e le strutture murarie di alcune costruzioni esistenti nei pressi del
tempietto.
L’indagine ha dato dei risultati che riteniamo di una certa rilevanza. Per
quanto concerne i blocchi basaltici che si possono ben individuare per le loro
dimensioni e per alcuni caratteristici intagli in essi praticati e che servivano
per l’inserimento di ulivelle di sollevamento, oltre a quelli esistenti in loco
ed individuati a suo tempo dal Libertini in prossimità del tempietto sul lato
ovest, altri due sono stati individuati sul fondo marino del golfo di Capomulini
e molti altri sono stati rintracciati nell’antico bastione di cinta in
prossimità del molo.
Tale struttura dovrebbe far parte di quelle opere difensive che, secondo
Vincenzo Raciti Romeo vennero iniziate dal colonnello ing. Carlo Grenebergh,
addetto militare dell’artiglieria e Genio di Spagna nel 1675 e completate nel
1677 a cura e spese del Municipio di Acireale con la partecipazione della
cittadinanza per combattere le azioni della pirateria.
Tutto il complesso difensivo doveva recingere il borgo marinaro fortificato che
costituiva il baluardo difensivo meridionale di Acireale. Le opere di
fortificazione comprendevano l’ancora esistente torre S. Anna costruita tra il
1582 e il 1600 e utilizzata come ottimo luogo di avvistamento e sicura fortezza
per la sua inespugnabile posizione a picco sul mare.
La ricerca delle colonne è stata difficoltosa, ma ga dato alcuni frutti che
potrebbero essere considerati abbastanza importanti. A cento metri circa ad
ovest del tempietto, in prossimità di un superstite antico muro, forse
appartenente all’antico fortino Alessandrano del 1600 e dei ruderi dell’antica
chiesetta cinquecentesca di S. Anna, della quale si conserva parte dell’abside,
esiste un piccolo belvedere sopraelevato dal terreno per circa tre metri e
terminante con un rustico ma gradevolissimo portichetto tetrastilo reggente un
pergolato, si è notato che mentre una colonnina è costituita da elementi di
colonnina in pietra lavica di piccolo diametro, le altre sono costituite da
elementi sovrapposti di settori circolari di lava.
Dall’esame di questi settori e dalle loro dimensioni, si è constatato che essi
costituivano gli elementi di colonne con diametro di m. 1,20 circa con un foro
centrale destinato ad un’anima interna di irrigidimento in ferro o malta
pozzolanica.
Risulta difficile asserire che dette colonne potevano appartenere effettivamente
al tempietto ma la vicinanza del luogo di ritrovamento e la loro ricostruibile
dimensione in sezione potrebbero dare a tale ipotesi un senso di una certa
attendibilità. Inoltre alla base di sopradetto rustico belvedere inglobato in
una antica struttura muraria, si è notata anche la presenza di un grosso
lastrone di pavimentazione in signinum. Da un esame particolareggiato del
frammento, e precisamente dalla sua granulometria, dal tipo di impasto e natura
della malta cementizia, si è constatato che esso è molto simile ai frammenti di
coccio pesto residui, posti sul piano superiore del tempietto e si può
ipotizzare con una certa sicurezza che detto frammento costituisce una parte del
pavimento. Da tale ipotesi lo spessore del pavimento si aggirava sui 20 cm
circa.
L’insieme dei non pochi elementi in loco recuperati ed
esaminati,testimonia con una certa sicurezza la presenza di un giacimento
archeologico preistorico poi calcato inseguito, nell’anno mille a.C. anche dai
Siculi, dato che quei reperti possono essere inquadrati in un contesto culturale
che abbraccia un periodo compreso tra il tardo neolitico e la prima età del
rame.
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