L’Unesco ha ritenuto che il
siciliano, lingua in pericolo di estinzione, debba
essere riconosciuto come lingua madre. Aggiungo alla
motivazione addotta che il siciliano non può essere
ritenuto un’appendice della lingua italiana e
neanche una lingua regionale italiana. L’insieme
delle parlate, circa 90, è frutto di un sostrato di
base, non sparito, derivante dalla parlata
sikana, dalla lingua (pre-sanscrita) portata dai
Siculi (1270 a.C.), dai dialetti dei Dori, Calcidesi,
Corinzi e Megaresi di provenienza culturale
indo-iranica, dalle derivazioni arcaiche del latino
restituto portato dagli invasori romani
(assolutamente minime) e poi dalle poche inflessioni
portate dalle varie dominazioni avvenute dopo il
mille d.C.. L’idioma siciliano contiene una larga
varietà di termini riscontrati nella veneranda
lingua sanscrita, di uso corrente nella parlata
attuale, tra hindi, tamil e dravidiche; molte parole
sono state riscontrate anche nell’etrusco. L’idioma
siciliano è molto più antico delle indoeuropee, in
esso sono sopravvissute, per migliaia di anni,
centinaia di parole sanscrite e in minor quantità
etrusche. Gli studi del gesuita missionario e
linguista francese Gaston Laurent Coeurdoux
(1691-1779) evidenziarono numerose parole ed
elementi culturali sanscriti nel latino, greco,
francese, inglese, tedesco, russo, confermando il
sanscrito come lingua “ispiratrice” delle
indoeuropee. Filippo Sassetti (1540-1588) riscontrò
similitudini tra sanscrito e italiano. Sir William
Jones (1746- 1794) ne trovò nel francese, inglese,
tedesco, persiano e celtico. Tutte lingue nate e
formatisi dopo gli eventi della Sicilia preistorica.
Piero Bernardini Marzolla (1929-2019) ha tradotto
moltissime parole etrusche grazie al sanscrito.
Una nuova
nota del prof. Enrico Caltagirone sulla lingua
siciliana. Scrive:
Essendo stato sollecitato da molti amici e
conoscenti, in particolare da Antonio Cattino di
Messina, voglio parlare della Lingua siciliana.
Parlo di “Lingua siciliana”, non di dialetto o di
vernacolo. Il “dialetto” connota un idioma minore,
rispetto alla lingua, il “vernacolo” una forma
ancora più dimessa. Pertanto invito formalmente
coloro che, volendosi riferire al “Siciliano”, usano
le parole “dialetto” e “vernacolo” a non farlo più.
Per spiegare questa scelta cercherò di argomentarne
i motivi, nell’intento di sfatare luoghi comuni e
affermazioni errate. Qualche anno fa, nel maggio del
2013, fui invitato al “Congresso linguistico
italiano”, a rappresentare la Sicilia. L’incontro,
intitolato “Le parlate d’Italia”, avvenne nella
prestigiosa sede milanese della Casa del Manzoni, in
Via Morone. In quella circostanza ho spiegato
chiaramente i motivi della scelta di “Lingua
siciliana” e non di dialetto o vernacolo. Ho
ricordato a tutti che la “Lingua Siciliana” è stata
utilizzata come lingua ufficiale e diplomatica dal
XIII al XV secolo!
Anche l’Unesco ha avallato la formulazione di
“Lingua madre”, desiderata e auspicata da molti
ricercatori siciliani. L’Unesco ha stabilito che
“Siciliano” e “Napoletano” devono essere considerati
“lingue madri” e non dialetti dell’italiano. Ma,
paradossalmente, mentre l’Unesco considera questi
idiomi dell’Italia meridionale “lingue”, lo stato
italiano no. Ogni commento è superfluo!
Immagine
Unesco
Ma bisogna che tutti abbiano chiaro il significato
di “lingua”, per evitare che sorgano malintesi. Una
“lingua” ha bisogno di regole e di un comune
sentire. In Lombardia potreste incontrare un
Bergamasco che parla il suo dialetto, un Mantovano
che parla il suo dialetto e uno di Sondrio che parla
il suo dialetto. Se parlassero fra di loro, ognuno
nel proprio dialetto, farebbero fatica a capirsi,
perché non parlano la stessa “lingua”. Ma se questi
tre personaggi parlassero in italiano, si
capirebbero benissimo, perché l’italiano è una
lingua che ha delle regole precise e un comune
sentire per tutti gli italiani. Bisogna fare lo
stesso discorso per la “Lingua siciliana”. Se
vogliamo che il “Siciliano” sia veramente una lingua
deve avere delle regole e un comune sentire per
tutti i Siciliani. Non possiamo scrivere in
messinese, o agrigentino, o in catanese o
palermitano, perché sarebbe scrivere nel dialetto di
Messina o di Agrigento o di Catania, ecc., e non in
“Lingua siciliana”. La faccenda è ancora più grave
quando si ricorre al fonografismo, scrivendo “cose”
illeggibili e improponibili, scimmiottando i vari
Tamburello e Di Giovanni. La Sicilia è stata nei
secoli abitata da genti di lingua e cultura molto
diverse, ed è inevitabile che in alcune zone sia
rimasta qualche traccia di tali popoli e delle loro
lingue, anche nel modo di pronunciare le consonanti
palatali, le liquide, le sonore e le sorde. Es.:
morta= motta, moita; bambino= picciriddu,
picciliddru; ecc. Serve dunque una convergenza e una
conformità che porti ad una lingua letterale
comprensibile a tutti nella scrittura. Del resto,
come qualcuno dei più attenti ha già osservato, dal
dopoguerra si è andato formando e consolidando un
siciliano letterario scritto che affonda le radici
nel latino, con ortografia e sintassi omogenee.
Avremmo così una “Lingua Siciliana” ufficiale uguale
per tutti, come la Lingua Italiana è uguale per
tutti, e avremmo per questa lingua vari dialetti
locali, che in Sicilia sono almeno 200, come avviene
in tutte le lingue del mondo.
Alcuni ricercatori sostengono che la Lingua Italiana
derivi dal “siciliano”. Ma ci sono fieri oppositori
i quali sostengono che questo sia solo un mito. Come
tutti sanno le prime testimonianze letterarie nel
territorio italiano risalgono al XIII secolo, al
tempo di Federico II Hohenstaufen, il quale presso
la sua corte, a Palermo, diede vita alla “Scuola
poetica siciliana”. Ne facevano parte eruditi giunti
da tutta l’Italia meridionale, notai e giudici, e ne
facevano parte lo stesso imperatore e suo figlio
Enzo. La produzione letteraria della Scuola
Siciliana e le innovazioni ad essa connesse ebbero
una grande rilevanza in tutto l’occidente, e in
special modo in Italia. Tra i letterati di maggiore
spicco si ricorda Jacopo da Lentini, a cui viene
attribuita l’invenzione del sonetto.
Da un punto di vista puramente linguistico i poeti
siciliani usarono una forma alta e aulica del
“volgare siciliano”, non propriamente quello parlato
dal popolo, operando una specie di “canone di
neutralità” dai vari dialetti locali e costituendo
una “Lingua Siciliana Ufficiale”, arricchita da
latinismi e francesismi portati dai trovatori.
Alla morte di Federico II la monarchia sveva
scomparve rapidamente, ma nonostante la sua
scomparsa, non scomparve il lascito, la produzione
letteraria della “Scuola Siciliana”.
Schiere di copisti toscani si erano adoperati a
riprodurre le opere della Scuola, eliminando o
modificando i passi più ostici e rendendo la poesia
siciliana “toscanizzata”.
Coloro che non concordano con la derivazione
dell’italiano dal siciliano oppongono soprattutto il
“vocalismo tonico”.
L’italiano fa uso di sette vocali, vocalismo
eptavocalico:
a, è, é, i, ò, Ó.
Il siciliano è pantavocalico:
a, è, i, ò, u.
Perché dunque sono giunte a noi poesie della Scuola
Siciliana con vocalismo toscano? Perché i copisti
toscani, nella trascrizione, oltre all’eliminazione
di alcuni arcaismi, cambiarono di loro iniziativa il
sistema vocalico siciliano in quello italiano. Tutti
gli autori successivi, compreso Dante, attinsero
alle copie toscane e maturarono l’idea che la lirica
siciliana abbia influenzato in modo determinante la
lingua italiana. Questo equivoco è usato dai
negazionisti come arma. Ma è evidente che nonostante
il vocalismo diverso e l’equivoco indotto dai
copisti, la Lingua Siciliana ha avuto una grande
importanza nella definizione della Lingua Italiana.
1. Origini e influssi
Questa
parte della ricerca è necessaria giacché alcuni
“illuminati” si ostinano a confondere il SICULO col
SICILIANO. La lingua dei Siculi (parlata nel
territorio italiano dal 1800 circa a.C. fino al 200
circa a.C.) era una lingua di origine orientale, una
lingua proto-indoeuropea portata a occidente dalle
varie ondate migratorie (vedi Marija Gimbutas,
Editta Castaldi, ecc.).
Nel primo tegolo di Adrano si può
leggere:
DVI HITI MRUKESH AIS UIE (Per i due morti qui
deposti invoca Dio). Nel secondo tegolo di Adrano si
legge: RE SESAN IRES (Concedi ai resti di
risorgere). Tutte le parole di tutte le iscrizioni
sicule sono sanscrite, senza alcun dubbio!
Diverso è il discorso per quanto riguarda il
SICILIANO. Al sostrato antichissimo costituito dalla
lingua dei Siculi, si sono nei secoli innestati
vocaboli e modi di dire di altre lingue. Pertanto il
siculo non ha l’esclusività della lingua siciliana
ma ne costituisce la base. I diversi popoli, che
negli ultimi 3000 anni si sono susseguiti, più o
meno pacificamente, alla dominazione della nostra
terra, hanno lasciato un’impronta indelebile nella
lingua e nella cultura siciliana. Un’analisi
sull’origine della lingua siciliana ne rivela la sua
unicità e la sua natura multiculturale.
Qui di seguito solo alcuni esempi di parole che ci
hanno lasciato in eredità i popoli giunti nelle
varie epoche in Sicilia.
2. L’influsso dei Siculi (1270 a.C. - 200 circa
a.C.)
I Siculi parlavano una lingua che possiamo definire
proto-indoeuropea. Nelle iscrizioni sicule si
possono trovare parole tipicamente
proto-indoeuropee, radici attestate in sanscrito,
alcune delle quali sopravvivono nella parlata
siciliana. Alcuni esempi:
lupara, da lup, morire;
mattanza, da maha, grande e hatá (han), morte,
uccisione;
prescia, da presha, premura;
ammatula, da a-matula, invano;
ammuccari, da mucka, bocca;
putra, da putra, figlia (anche di animali);
camiare, da kam, piacere;
nica, da nica, piccolo;
priarisi, da pri, gratificarsi;
alluzzari, da look, vedere;
vara, da vara, spazio protetto;
sbaddu, da svadha, piacere;
ambu, da ambu, acqua;
trinakia, trinacie, da trinakya, giardino.
3. L’influsso greco (735-254 a. C.)
I Greci lasciarono un’impronta indelebile nella
nostra parlata. Molte sono, infatti, le espressioni
di origine greca che vengono ancora usate, nella
nostra parlata, come ad esempio:
carusu, ragazzo, greco kouros;
cirasa, ciliegia, greco, kérasos;
casèntaru, lombrico, greco, ges enteron’;
crastu, montone, greco krastos;
cuddura, forma di pane, greco, kollira;
‘ntamatu, sbalordito, greco, thauma’;
babbiari, scherzare, greco, babazo;
allippatu, unto d’olio, sporco, greco, lipos;
pitrusinu, prezzemolo, greco petroselinon;
fasolu, fagiolo, greco faselos;
tumazzu, formaggio, greco tumassu.
Inoltre molti nomi di città come Trapani, greco,
drepano, Palermo, greco pan ormos.
4. L’influsso latino (254 a.C - 410 d.C.)
Nell’anno 254 a.C. i romani occuparono la Sicilia e
vi rimasero per più di 600 anni, fino al 410 dopo
Cristo. Il latino non ebbe vita facile in Sicilia,
perché al latino si preferiva il greco, ritenuta
lingua più dotta. Comunque, con l’andar del tempo si
incominciò a parlare anche il latino. Oltre alle
espressioni di origine latina che si riscontrano
nella lingua italiana, il siciliano conserva alcune
espressioni latine, che non si riscontrano
nell’italiano, come:
antura, poco fa, latino ante horam;
oggiallannu, l’anno scorso, latino hodie est annus;
bifara, una specie di fico, latino bifer;
muscaloru, ventaglio per le mosche, latino muscarium;
grasciu, grasso, sporco, latino crassus.
L’influsso dei Barbari, (410 - 535 d.C.) non ebbe
conseguenze dal punto di vista della lingua. Durante
la loro occupazione si continuò a parlare e a
scrivere in latino e greco.
L’influsso bizantino, (535 – 827 d.C.) servì a far
riemergere la lingua greca, che rimase la lingua
predominante per i successivi tre secoli.
5. L’influsso arabo (827 - 1064 d.C)
Nell’827 d.C., la Sicilia fu presa di mira, invasa e
conquistata dagli Arabi, i quali rimasero sull’isola
per circa 3 secoli. Furono loro ad introdurre in
Sicilia sistemi di irrigazione, piantagioni di
limoni, aranci, pistacchi, meloni, papiro,
gelsomino, ecc. Molte espressioni nel campo agricolo
ed alimentare, nell’amministrazione e nella
toponomastica derivano dall’arabo:
babaluci, lumaca, arabo babaluci;
balata, pietra, arabo balat;
cafisu, misura d’olio, arabo qafiz;
cùscusu , pasta per la minestra, arabo kouskousu;
dammusu, abitazione, arabo damús;
gebbia, vasca d’acqua, arabo dijeb;
giuggiulena, semi di sesamo, arabo giulgiulan;
mischinu, poveretto, arabo miskin;
sciarriarisi, litigare, arabo sciarr.
zagara, fiore d’arancio, arabo zahra.
Testimoniano la lunga presenza degli Arabi anche
molti nomi di città, come Caltagirone, Caltabellota,
Calatabiano, Calatafimi Caltanissetta, con
l’elemento arabo “qalah” o “qalet” (castello), e
Misilmeri (castello dell’emiro), arabo: manzil
al-amir.
6. L’influsso normanno (1064 – 1195)
La dominazione araba ebbe termine nell’anno 1064.
Ruggero I invase la Sicilia ed ebbe ragione degli
Arabi, che non andavano più d’accordo tra di loro.
Con i Normanni giunsero in Sicilia i trovatori, che
tanta importanza rivestirono dal punto di vista
linguistico, ed entrarono nella parlata siciliana
molte espressioni franco-provenzali, come:
accattari, francese acheter;
buatta, francese boite;
ladiu, francese laid;
racina, francese raisin;
muntuari, nominare, francese mentaure;
burgisi, possidente, borghese, francese borgés;
picciottu, giovanotto, francese puchot;
muntata, salita, francese montade.
7. L’influsso degli Svevi (1195 - 1250)
Alla morte dell’ultimo re normanno, la corona di
Sicilia passò a Costanza, moglie del re Enrico di
Hohenstauffen. Fino all’avvento di Federico II,
alcuni baroni tedeschi comandarono la Sicilia per
quasi vent’anni. Quantunque breve, questo periodo
lasciò qualche impronta di tedesco nel siciliano:
arrancari, muoversi con affanno, tedesco rank ,
gotico wranks;
vastedda, pane rotondo, tedesco wastel;
sparagnari, risparmiare, tedesco sparen.
8. L’influsso degli Angioini (1266 - 1282)
Alla morte di Federico II (1250 dopo Cristo) seguì
un periodo caotico. Per 11 anni la corona passò al
figlio del re d’Inghilterra, Edmondo di Lancaster,
che fu poi destituito dal nuovo papa francese che
affidò il regno a Carlo di Anjou, fratello del re di
Francia. Sebbene di breve durata (1266 fino al
1282), il periodo angioino fece consolidare la
parlata francese, che diede al siciliano espressioni
come:
ammucciari, nascondere, francese mucer;
custureri, sarto, francese costurier;
scippu, furto, francese chiper;
runfuliari, russare, francese ronfler;
travagghiari, lavorare, francese travailler;
vucceri, macellaio, francese boucher (vucciria).
9. L’influsso spagnolo e catalano
La dominazione francese cessò a causa di una rivolta
popolare (i Vespri Siciliani del 1282). Carlo d’Anjou
fu cacciato, ma la Sicilia rimase comunque in balia
di un altro “straniero”, Pietro D’Aragona. Gli
spagnoli governarono la Sicilia per quasi 500 anni.
abbuccari, cadere, capovolgere, spagnolo abocar;
affruntarisi, vergognarsi, spagnolo affrontarse;
arricugghirisi, rientrare, spagnolo recollirse;
cucchiara, cucchiaio, spagnolo cuchara;
curtigghiu, cortile, spagnolo cortijo;
lastima, lamento, affanno, spagnolo, làstima;
pignata, pentola, spagnolo piñada;
scupetta, fucile da caccia, spagnolo escopeta;
zita, fidanzata, spagnolo, cita:
sgarrari, sbagliare, catalano esgarrar;
stricari, strofinare, spagnolo estregar;
nzirtari, indovinare, catalano encertar.
10. Conclusione
La Lingua siciliana, come risulta
chiaramente da questa dissertazione, poggia le sue
basi su un sostrato proto-indoeuropeo introdotto
nell’isola dai Siculi. Su quelle antiche basi si è
innestata nel tempo la lingua greca, dando vita a
comunità di parlanti “sicelioti”. Bisogna ricordare
che il greco è una lingua indoeuropea, e la lingua
parlata dalle avanguardie greche non era così
dissimile dal siculo.
La dominazione romana non cambiò
questo stato di cose per molti secoli, giacché si
continuò a parlare una lingua greca frammista a
siculo. Tutte le dominazioni successive hanno
contribuito a creare un idioma unico al mondo.
La Lingua siciliana ha dunque delle
nobili origini e da ciò bisogna partire se vogliamo
difendere e affermare la nostra identità. Sarebbe
auspicabile che le autorità scolastiche e politiche
siciliane, si impegnassero a rivalutare, curare,
difendere e divulgare questo patrimonio
multiculturale, unico al mondo, e parlato in tutto
il mondo. A tale proposito, pare che qualcosa si
stia muovendo. Dopo pochi mesi dall’annuncio del 15
maggio 2018, durante i festeggiamenti dello Statuto
Speciale della Regione, l’insegnamento della Lingua
Madre Siciliana nelle scuole pare stia diventando
una realtà operativa. Secondo le dichiarazioni
dell’assessore Lagalla, “La Lingua Siciliana andrà
collocata dentro l’insegnamento di una materia
letteraria. Saranno previsti diversi livelli di
insegnamento, dalle scuole primarie alle superiori”.
Non ci rimane che attendere e sperare, con i
politici non si sa mai!
Il “siciliano” oggi, oltre che dai 5
milioni di Siciliani, e da almeno 2-3 milioni di
siciliani sparsi nel resto d’Italia, oltre che da
Calabresi e Salentini, è parlato da un numero
imprecisato (si calcola oltre 5 milioni) di persone
emigrate di recente, o discendenti di emigrati nei
secoli scorsi, in USA, dove si è formato il “Siculish”,
in Canada, in Australia, in Argentina (la comunità
più numerosa), in Uruguay, in Venezuela, in Belgio,
in Germania e nella Francia meridionale.
Il processo della rinascita siciliana,
a cui stanno lavorando schiere di ricercatori, di
linguisti, di poeti, che meritano ogni elogio e un
invito a continuare, deve passare anche attraverso
la rivalutazione della nostra storia, della nostra
cultura e della nostra lingua.
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