La Sicilia vista oggi sembra aver cancellato le ferite riportate nel corso dei millenni. I siciliani assai poco si sono curati del loro passato, dedicando persino strade, piazze e monumenti ai loro oppressori, persecutori e carnefici. Superficiali o di poca memoria? Perché la Sicilia ha poco o niente a che fare con la cosiddetta unità d’Italia e con molte altre regioni dello stivale. I viaggiatori dell’Ottocento ma pure del Settecento e ancor prima del Cinquecento, meno corrotti culturalmente degli “indottrinati” o dei costretti dei nostri giorni, avevano visto bene e giusto; primo tra tutti sir William Goethe: “Per comprendere l’Italia, devi prima aver visitato la Sicilia”. Pensavate si fosse riferito solo alla potenza e generosità della natura oppure all’ingegno, generosità e senso di umanità delle genti di Sicilia? Tutti e due! Perché la seconda? I motivi sono tanti e non sempre correttamente amalgamati tra di loro. Il lungo peregrinare dell’uomo ha acquisito conoscente e fatto esperienze sulla propria pelle e imparando a proprie spese dagli errori commessi come dai contatto o scontri con altre genti e con la stessa natura. All’inizio del ventesimo secolo un altro viaggiatore, William Agnew Paton in - Sicilia pittoresca - aveva scritto: per conoscere l’Europa si deve conoscere l’Italia. Per conoscere l’Italia si deve essere ben versati nella archeologia, storia e letteratura di Sicilia, perché come scriveva Goethe “l’Italia senza la Sicilia non lascia immagini nello spirito; la Sicilia è la chiave di tutto. Il Paton non è da annoverarsi tra i primi viaggiatori che hanno attraversato la Sicilia, contare la totalità dei quali si è dimostrato un compito assai arduo... Lo scrittore americano non ha da compiere una impresa evangelica, non ha l'ambizione che il suo sia un Grand Tour... e non ha neanche interessi scientifico-naturalistici. Il Paton, rimasto nell'Isola per oltre sei mesi, al di là del titolo che lascerebbe pensare che nel suo diario faccia semplicemente un'analisi paesaggistico-architettonica di quanto osserva, è consapevole del ruolo svolto dall'Isola nell'antichità e capace di superare i pregiudizi che la vogliono terra di briganti, di disordini sociali e di terremoti... La sua capacità dialettica sta nel saper fondere l'analisi dei caratteri e delle condizioni di vita di un popolo con la descrizione dei suoi monumenti che rivive nella loro storicità appassionando il lettore con un linguaggio vivo, ardente e capace di suscitare emozioni. L’identità dell’uomo è espressa in parecchi modi, primo tra tutti con il suo linguaggio e con le sue tradizioni. La lingua parlata e quella tramandata. Quindi per risalire ai percorsi, al cammino dell’uomo nei tempi sarà indispensabile collegare segni, parole, alfabeti. Intorno alla metà del cinquecento, Tommaso Fazello, autore del “De Rebus Siculis decades duae”, indicava la “Montagna” divisa in tre regioni; decantandola con mirabili versi: quella regione è tutta amena, ornata di bellissime vigne, e d’ogni specie di frutti domestici, e le campagne che vi sono, producono erbe e biade bellissime”.”l’altra regione che segue nel detto monte, è tutta piena di boschi, e dura quasi dieci miglia”. Nel 1558, spinto da Paolo Giovio dopo ventennali ricerche, diede alle stampe presso la tipografia Maida di Palermo il De Rebus Siculis Decades Duae, il primo libro “stampato” sulla storia della Sicilia: la prima decade è di carattere geografico e descrittivo, mentre la seconda è di carattere storico. Si tratta di un'opera fondamentale per la topografia e la geografia della Sicilia, scritta in elegante latino, importante altresì come primo esempio di topografia storica e archeologica; contiene inoltre una storia della Sicilia dalle origini mitiche fino ai tempi dell'autore. Fu per dieci volte priore del convento di San Domenico a Palermo e due volte provinciale di Sicilia. Fu tanta la sua fama che nel 1558 fu designato come generale dell'Ordine, ma modestamente rifiutò l'incarico. Frate domenicano, non si sa con certezza se Tommaso, al pari di suo fratello Girolamo, abbia studiato teologia a Padova. Fu a lungo insegnante a Palermo, a partire dal 1555, presso il convento di San Domenico. Vestì l'abito in San Domenico a Palermo e ben presto con la sua dottrina ed eloquenza divenne uno dei maggiori oratori dell'epoca. Tra le scoperte di Tommaso Fazello i siti di Akrai Selinunte, Eraclea Minoa e del tempio di Zeus Olimpio ad Agrigento. Compose altre opere che lasciò inedite, tra le quali le Conciones variae ed il De regno Christi (sebbene quest'ultima venga attribuita da Pirro al fratello di Tommaso, Girolamo). Fazello é stato definito Padre della storia siciliana e Livio siciliano. ***** Prima dell’avvento dei Borboni con il Regno delle Due Sicilie, nell’isola regnava la disperazione e la rassegnazione. Con la fame, le scomuniche, le angherie, la sottrazione di beni, il brigantaggio, le impiccagioni, il banditismo, e il giogo politico, nobili e sant’uffizio, alleati nel proteggere i violenti e i fuorilegge, per tutelare se stessi per paura delle rivolte del popolo hanno piegato la resistenza dei siciliani. Poi a seguito di tutto questo ci furono le inenarrabili vicissitudini dei siciliani dopo il periodo che va dal 1800 al 1861, anno in cui i siciliani e il meridione d’Italia furono traditi e venduti anche dalle mafie locali e dalla chiesa. Ci fu un lungo periodo di persecuzioni tra banditismo e la prima forma di mafia siciliana; dalle oppressioni dei nobili arricchiti a quelle della chiesa e dei suoi rappresentanti. Di fatto lo Stato in Sicilia non c’è mai stato se non per raccogliere le gabelle. Da sottolineare che la prevalenza, la gran maggioranza di camicie rosse garibaldine erano bergamaschi. Prima della cosiddetta unità. Quando la mafia non si chiamava mafia. Invero. A quel tempo, la nobiltà era la vera classe dominante perché controllava tutti gli uffici burocratico-amministrativi, possedeva, insieme agli enti ecclesiastici, quasi l’intero patrimonio terriero dell’isola (1); godeva di numerose franchigie ed immunità (impunità) soprattutto in ambito fiscale e dominava il Parlamento. Persino il Vicerè era sostanzialmente in balìa dei nobili che operavano uno spietato controllo e gli consentivano a malapena di esercitare poteri assai limitati, come il rifornimento annonario e nel non far mancare o rincarare troppo il pane. Per loro tranquillità operavano per far distrarre il popolo organizzando feste e spettacoli pubblici. L’immagine ingannevole di una Sicilia felice fu spesso amplificata dal lusso e dal fasto di cui si circondavano le classi abbienti. Ricordiamo le tre “effe” dei Borboni: Feste, Farina e Forca perché risultavano assai gradite anche le pubbliche esecuzioni, come nel resto d’Europa, d’altronde. Il Santo Uffizio, o Santa Inquisizione, in Sicilia ha solo cambiato solo nome. Chiarissime le relazioni di Calà Ulloa e di Ferrigno, le considerazioni di Bianchini e quelle in materia di pubblica sicurezza di Turrisi Colonna, sotto il profilo dell’individuazione delle prime indiscutibili forme di proto mafia; esse rappresentano una cerniera tra il periodo borbonico e quello post-unitario. Prima del 1860 la mafia, (o meglio quell’insieme di fattori e di condizioni cui non era stato ancora attribuito un nome), non era un fenomeno necessariamente associativo a scopo meramente o prevalentemente criminale, ma un modo di essere, di pensare e di comportarsi comune a larghi strati della popolazione. Un quid non ancora percepito negativamente a causa della sua profonda omogeneità che lo esprimeva. Considerata nella sua essenza, la mafia è, d’altra parte, una forma di individualismo esasperato che mal si adatta, anzi è avverso alla vita democratica ed al senso di socialità che ne deriva. Era già qualcosa di simile alla “camorra” napoletana o della “teppa” milanese; non ancora una piovra sociale come poi sarebbe diventata dopo lo sbarco americano in Sicilia. In Sicilia: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Da il principe Fabrizio ne “Il Gattopardo”. (1) Il Santo Uffizio era diventato un’Istituzione Politica e sempre meno un Tribunale Religioso; riuscendo di fatto a condizionare e paralizzare l’attività dello Stato; siamo in pieno 1500. Esso era straricco e potentissimo per via lei lasciti (imposti), donazioni (suggerite) e confische agli inquisiti che non “collaboravano”. Fu abolito nel 1782 per opera del Vicerè Domenico Caracciolo sull’onda del Riformismo Borbonico. - Tratto dal libro: “Il nome e la cosa, quando la mafia non si chiamava mafia”. La storia ufficiale, quella che i servi scrivono per i vincitori ci racconta un’altra storia fatta di sole luci tutte orientate a far credere un improbabile benessere diffuso anche tra le classi meno abbienti se così possiamo definire contadini e manovali o semplicemente assimilarli a servi della gleba (I servi della gleba venivano chiamati proprio così perché non potevano abbandonare le terre in cui lavoravano a causa dell'estrema povertà). La “nobiltà” pensò dunque di distinguere la condizione dei contadini sottoposti a un signore sia da quella degli uomini pienamente liberi sia da quella dei veri e propri schiavi. Gli “uomini di legge” (sempre loro, i nobili) del 12° e 13° secolo inventarono allora un termine nuovo: servi della gleba. Trovo quindi fuori luogo parlare di stato sociale, di diritti dei lavoratori, di qualità della vita e di rispetto della persona in quanto tale. Gli Acta Murensia (documenti del convento benedettino di Muri), mostrano come durante l'XI sec. in pieno medioevo, dei contadini liberi siano divenuti semiliberi dopo essersi posti sotto la protezione (dietro pagamento) di grandi contadini liberi che avevano assunto il ruolo di signori fondiari: questi ultimi, per mancanza di manodopera, li costrinsero a effettuare delle Corvée (forza lavoro). Questo processo faceva parte di un rimescolamento sociale più ampio, nel corso del quale uomini liberi (liberi homines) regredirono alla semilibertà, mentre servi affrancati ascesero a tale condizione. Per questa ragione, dall'XI-XII sec. si formò un ceto di servi, giuridicamente piuttosto omogeneo, che dipendeva da signori nobili ed ecclesiastici. Questo status veniva trasmesso per via ereditaria (sia nel caso di genitori entrambi servi, sia in quello di un solo genitore servo, poiché i figli assumevano la condizione del genitore giuridicamente più debole) o entrando a far parte della Familia di un signore fondiario. Inizialmente fu diffuso anche nelle Città, poiché i servi del signore urbano (ad esempio i membri della familia vescovile a Basilea) facevano parte della cittadinanza come gli uomini liberi. La Chiesa, che con i capitoli e le abbazie figurava tra i maggiori signori fondiari, riconobbe la servitù della gleba come istituzione legittima, interpretandola come una punizione per il peccato originale. Nel suo poema epico in versi Der Ring (attorno al 1400), il turgoviese Heinrich Wittenwiler ne individuava le origini nell'Antico Testamento. Per contro, la servitù della gleba fu condannata da fonti giuridiche tedesche, tra cui lo Specchio svevo (attorno al 1275), perché contraria al diritto divino e naturale (Giusnaturalismo). Per i loro padroni, i servi costituivano un valore patrimoniale, basato sulla loro forza lavoro (corvée) e sulle tasse da loro riscosse (testatico), e non sulla loro persona; era possibile venderli, scambiarli e impegnarli. La vendita di terre comportava anche il passaggio al nuovo proprietario dei servi che le coltivavano. Legati alla terra e alla curtis (Economia curtense), non potevano trasferirsi senza l'autorizzazione del signore, alla cui giurisdizione erano soggetti in quanto membri della sua familia (Diritto curtense) e a cui andava il loro manso quando morivano; sottomessi al diritto di Manomorta, non potevano cedere nulla direttamente ai loro discendenti, che non godevano di nessun diritto all'eredità. I matrimoni, talvolta forzati, dovevano aver luogo all'interno della familia o della comunità (Genossame); in caso contrario (Maritaggio) i servi venivano puniti. Essi dipendevano economicamente dai loro padroni a cui dovevano obbedienza; tuttavia non erano delle cose come gli schiavi, ma persone dai diritti limitati in materia di diritto successorio, di matrimonio e di mobilità sul territorio. Già nel XIV sec. disponevano di una personalità giur.; comparivano come giudici o testimoni nei tribunali signorili (ad esempio a Beromünster nel 1334) e come controparti contrattuali dei loro signori. La trasformazione della “cosa”aveva già delle “regole”; il vero mafioso poteva essere un carrettiere, un arciprete, un medico, un avvocato, un campiere, un commerciante o un gabelloto; era sufficiente ed insieme indispensabile che sapesse svolgere quei compiti di mantenimento dell’ordine e di protezione delle strutture interne che lo stesso sistema clientelare postulava e gli assegnava. In campagna non esisteva la varietà di interessi economici che contraddistingueva la città; di conseguenza, i mafiosi si schieravano sempre dalla stessa parte, quella dei ricchi; quindi da qui a definirli “uomini d’onore” ce ne corre e tanto. In tal modo assicuravano il controllo e la repressione della “forza lavoro” i cui costi dovevano essere mantenuti bassi o meglio ancora quasi nulli; al fine di assicurare la continuità del sistema economico consolidato tutto a favore dei già ricchi. Il brigantaggio dunque non aveva nulla a che spartire con la cosiddetta mafia; il fenomeno traeva origine dalle miserevoli condizioni economiche in cui versavano la quasi totalità dei contadini e dei proletari siciliani. Ma la storia dei siciliani è piena di cose, fatti, angherie e avvenimenti di ogni genere ma forse simili a quelli che accadevano anche in altre parti della terra, né più né meno. |