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Questa pagina/gruppo , è stata creata per sondare la sensibilità dei cittadini verso ciò che da uomini e loro idee ci sono stati tramandati dallo scorrere del tempo e che sopravviverà a noi stessi.

Associazione Culturale editrice

"Accademia di Arti e Culture"

 

L'Associazione Culturale editrice "Accademia di Arti e Culture" favorisce l'ingresso di nuovi iscritti/e con piccole quote di adesione.

 L'Associazione consente la massima partecipazione a tutti gli iscritti ad ogni evento, locale o regionale.

 

Il Presidente

Rosario Rigano

 

L’Associazione è un luogo di confronto sulle tematiche legate allo studio e all'approfondimento del valore intrinseco dei beni culturali, mobili, artistici e architettonici, archeologici e dei beni paesaggistici; contribuisce a diffondere sul territorio la cultura della cura, preservazione, tutela, restauro, fruizione, valorizzazione, promozione, e gestione del patrimonio culturale per la ricchezza del territorio, la tutela dell'ambiente atto ad accogliere un turismo culturale e d’elite.
  Mission:
- Educare al patrimonio.
- Abilità ad osservare ed analizzare i Beni Culturali.
- Conoscenza dei e sui Beni Culturali.
- Conoscenze storiche in cui i Beni Culturali siano elementi importanti.
- Conoscenze storico-artistiche in merito alle forme e ai valori estetici dei BB.CC.
- Conoscenza del territorio in cui i BB.CC. sono iscritti.
- Educazione del cittadino.

 

Il Presidente

Rosario Rigano

 

 

 

 

   Dai gesti alla parola. Dai segni agli alfabeti.

Il percorso è lungo e articolato.

   L'uomo ha cominciato a parlare come minimo un milione di anni fa, non avrebbe altrimenti esercitato le attività nautiche, la costruzione e assunto altre importanti competenze per popolare il pianeta, dicono i ricercatori dell'Università del Massachusetts, Bentley.26 feb 2018

   Si è anche scoperto che l'uomo di Neanderthal sapeva parlare; non certo un vero linguaggio ma forme di parole.

   Niente, nel campo della ricerca, è mai definitivo e nulla può essere mai dato per scontato perché alla luce di nuovi ritrovamenti può essere rivoluzionato tutto il sapere dei nostri giorni. Mehrgarh per esempio, ha rivoluzionato un sacco di ipotesi, perché ad oggi di ipotesi si parla.

   Una lunga ed approfondita analisi merita, per quanto possibile ed in virtù dei dati oggi a nostra disposizione, l’origine del Sanscrito e tutto quanto ne deriva; lingue indoeuropee in primis. In quanto le ipotesi che si rincorrono non portano nulla di nuovo anzi creano solo ambiguità, sovrapposizioni e confusione. Domanda d’obbligo: Prima del Sanscrito? A questa domanda la risposta poteva arrivare solo se si fossero effettuati i dovuti rilievi il quelle parti di territori che oggi ospitano l’Iran ed ancor prima la Grande Persia (divisa in satrapie, come le attuali province: Divisione amministrativa dell'antico impero persiano. Le satrapie erano grandi feudi cui era concessa un'ampia autonomia in materia civile, penale e militare. Il sistema delle satrapie fu conservato da Alessandro Magno e dai suoi successori, poi dai Seleucidi e dagli Arsacidi.

   Una provenienza iranica la si può ipotizzare analizzando il percorso che porta a Mehrgarh nel Pakistan meridionale. Ma sembra che da quelle parti i governi abbiano timore di nuovi scavi perché si potrebbero imbattere in nuove scoperte che   farebbero crollare i loro credi religiosi e tutto quanto su cui è stato costruito il potere intimidatorio e sottomissivo verso il popolo.

   La cultura Veda, che introduce il Sanscrito, ha origine in testi liturgici di cui non siamo in grado di stabilirne la veridicità.

   AryaIl termine arya, che propriamente indica un ramo della famiglia linguistica indoeuropea, si riferisce a popolazioni seminomadi di varia etnia che così definivano sé stesse («nobili»). Le loro origini storiche vengono ricostruite in base ai più antichi Veda e a ritrovamenti archeologici. Muovendo da una regione che si ipotizza compresa fra il Caucaso più precisamente tra il Mar Nero e il Mar Caspio, le tribù arya, a diverse ondate, attraversarono l’altopiano iranico e la Battriana, giungendo nell’India nord-occidentale attorno alla metà del 2° millennio a.C. Varcata la catena dello Hindukush all’altezza dell’attuale Passo di Khyber, penetrarono nel Punjab trovandovi un ambiente favorevole alla propria economia basata essenzialmente sull’allevamento bovino, la caccia, la raccolta di prodotti della foresta, e su una forma rudimentale di agricoltura.

   Soltanto verso il 1000 a.C. alcune tribù riuscirono a farsi strada attraverso la densa foresta che li separava dalla piana gangetica, grazie anche all’uso del ferro che avevano intanto appreso. Avvantaggiati dall’utilizzo del carro leggero a due ruote raggiate, sottomisero le locali popolazioni, dedite a un’agricoltura stanziale, e iniziarono un processo di sedentarizzazione sfociato nella formazione dei janapada e nella creazione di centri urbani dall’economia complessa.

 

   Le guerre combattute dalle diverse tribù per la conquista di uno spazio vitale lungo la valle del Gange, tra le pendici dell’Himalaya a N e la catena dei Vindhya a S, sono echeggiate nei tardi Veda e nei poemi epici Mahabbarata e Ramayana. Il carattere seminomade delle antiche tribù a. si riflette nella religiosità del periodo vedico, incentrata sul sacrificio (yajña) rivolto agli dei del cielo. Il contatto con le popolazioni indigene e la sedentarizzazione nel periodo tardovedico furono estremamente fecondi.

   All’avvio della grande speculazione filosofica sulla natura dell’essere (atman-brahman), fondata sull’interiorizzazione del sacrificio (yoga), si accompagnò l’elaborazione della dottrina del karma («azione») secondo cui la rinascita futura è conseguenza delle azioni compiute nella vita presente. Di qui anche l’evoluzione di strutture sociali che collegavano le diverse funzioni socio-economiche a distinti profili rituali, mentre si stabiliva un nuovo tipo di regalità in cui il sovrano, grazie alla mediazione sacerdotale, diveniva garante dell’ordine cosmico e, di conseguenza, del regolare succedersi delle stagioni e della fertilità della terra.

   In ambito linguistico, al passaggio dal vedico antico alla lingua «perfecta» (sanscrito) fece da contrappunto la nascita di parlate regionali «naturali» (pracriti). L’espansione politica di importanti formazioni statali dell’India gangetica a partire dal 4° sec. a.C. integrò nella civiltà aria le regioni centrali e meridionali del subcontinente. Qui le corti regali sorte dal 4° sec. d.C. in poi replicarono i modelli sociali e culturali del Nord mantenendo, peraltro, specifiche caratteristiche locali. Questo processo si venne consolidando dopo l’8° sec. e giunse a maturità nel 14°. (sanscrito, nobile), nome indicante i popoli di origine indeuropea, stanziatisi in India nella seconda metà del II millennio a. C., dei quali non si conosce ancora con precisione la regione originaria, ma che con tutta probabilità giunsero in India attraverso i passi del nord-ovest. In un primo tempo si stabilirono nel Punjab e successivamente nella fascia dell'India settentrionale compresa fra la catena dell'Himalaya, a N, e i monti Vindhya, a S, chiamata con il nome di Āryāvarta (la terra degli Ārya). La civiltà e, in modo frammentario, la storia degli Ārya ci sono note soprattutto dai Veda, che li distinguono dalle popolazioni aborigene dell'India, rappresentate spesso in forma demoniaca, con il nome di Dasyu.

   Gli Ārya erano un popolo di pastori e di guerrieri per cui agricoltura e caccia rappresentavano attività secondarie. Vivevano in villaggi e avevano come principale mezzo di sussistenza le mandrie di bovini. La loro alimentazione era per lo più vegetariana, pur non essendovi ancora il divieto religioso di mangiar carne. L'unità politica più elevata era la tribù, governata dal re, che non aveva un potere assoluto, ma doveva sempre consultare le assemblee dei maggiorenti. La lingua era della famiglia indo-iranica, la religione politeista, arricchita da meditazioni filosofiche di origine più tarda. Lo stato di guerra fra le varie tribù di Ārya e fra queste e gli aborigeni era normale. I gruppi di Ārya che si misero maggiormente in luce, dando origine a vere e proprie dinastie, furono i Bhārata, i Puru, i Kuru, i Pañcāla, i Pārikśita.

   La scoperta dell’origine comune delle lingue antiche dall’indoeuropeo

   Per quanto ci fossero state fin dal XVI secolo delle osservazioni sulla sorprendente somiglianza tra parole della antica lingua sanscrita ed altrettante espressioni appartenenti alle lingue europee, soltanto con il celebre discorso di William Jones tenuto al terzo congresso della Royal Asiatic Society di Calcutta nel 1786 vengono formulate esplicitamente sia l’idea di una stretta parentela tra sanscrito, greco e latino (con ipotesi di affinità con altre lingue antiche), sia l’idea di una comune discendenza di queste lingue. Nasce simbolicamente da questo episodio la linguistica storica che caratterizzerà l’intero secolo XIX e sancirà definitivamente l’origine comune di greco, latino, sanscrito e di molte altre lingue antiche da una lingua non attestata chiamata “indoeuropeo”. Quest’ultima era parlata da un popolo che, partendo dalla terra in cui era stanziato, presumibilmente le pianure a nord del Mar Caspio e del Mar Nero, si era spinto, con ondate migratorie successive, sia a sud-est, nella penisola del Deccan, sia nell’Occidente europeo.

   L’ipotesi iniziale

   Nel 1786 il funzionario britannico della East India Company William Jones, che si trova a Calcutta con funzioni di magistrato, ma che prima della carriera giuridica ha fatto studi relativi alle lingue orientali a Oxford, legge presso la sede della Royal Asiatic Society di Calcutta il suo celebre saggio in cui stabilisce, al di là di ogni dubbio, la parentela storica tra il greco, il latino e il sanscrito (quella che era stata per secoli la lingua di cultura dell’India), a cui aggiunge anche una ipotesi di affinità con le lingue celtiche, il gotico e il persiano. Evidenziando le numerose somiglianze, ipotizza decisamente una discendenza comune di queste lingue da una lingua più antica:

  “La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante abbia con entrambe un’affinità più forte, sia nelle radici dei verbi, sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così forte, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt’e tre, senza credere che esse siano sorte da qualche fonte comune, la quale non esiste più. C’è un’altra ragione simile, sebbene non altrettanto cogente, per supporre che tanto il gotico quanto il celtico, sebbene mescolati con un idioma molto differente, abbiano avuto la stessa origine del sanscrito e l’antico persiano potrebbe essere aggiunto alla stessa famiglia.” (citato in Robert H. RobinsStoria della linguistica, Bologna, 1971).

   Se vogliamo stabilire un atto di battesimo per la presa di coscienza dell’origine comune di molte lingue diffuse nell’Antichità nei due continenti, rispettivamente, europeo e asiatico e, contemporaneamente, per la nascita della linguistica storica possiamo indicarlo appunto in questo episodio.

   La problematica relativa ad una parentela tra alcune antiche lingue europee e il sanscrito non è del tutto nuova. Ad esempio, nel secolo XVI l’italiano Filippo Sassetti(1) ha scritto dall’India mettendo in evidenza, con stupore, la somiglianza di numerose parole sanscrite con altrettante parole italiane; ed ugualmente numerose somiglianze con il tedesco sono state notate da B. Schulze e con il francese da Père Coeurdoux. Tuttavia tali osservazioni, frammentarie e isolate, non avevano prodotto nessun importante effetto scientifico.

   La scoperta di Jones non solo è più profonda e documentata di quanto siano state le osservazioni precedenti, ma può godere del propizio momento storico di cui sono in parte responsabili le guerre napoleoniche e Napoleone stesso, il quale incoraggia le ricerche archeologiche dei Francesi in Egitto e nel Vicino Oriente, permettendo una proficua familiarizzazione degli studiosi con le lingue non europee del Mediterraneo.

   Lo stesso fenomeno del colonialismo, che ha messo in contatto William Jones con il sanscrito in India, ha prodotto, più in generale, l’esplorazione dei vasti territori asiatici nel corso del Settecento e ha stimolato la curiosità degli studiosi per lingue precedentemente sconosciute. Il movimento romantico, poi, con la sua valorizzazione dell’esotico e del lontano, contribuisce non poco all’interesse per le civiltà e le lingue orientali, tra cui in prima fila il sanscrito e l’antico persiano.

   La grammatica comparata

   È soprattutto in Germania che si sviluppa uno studio sistematico relativo alla comparazione e all’origine delle lingue. Tra i primi, Friedrich von Schlegel si dedica a questa ricerca ampliando la base dei confronti linguistici e gettando, così, solide fondamenta per lo studio della linguistica comparata. Tuttavia, a identificare in maniera pienamente scientifica le corrispondenze fonetiche tra le lingue che in seguito si sarebbero dette indoeuropee (ma che i tedeschi preferiscono sempre identificare come famiglia dell’indogermanisch, “indogermanico”) sono due studiosi che traggono le loro conclusioni, almeno nella prima fase, indipendentemente: uno tedesco, Jakob Grimm e uno danese Rasmus Rask. In particolare Grimm mostra (formulando quella che è stata definita “legge di Grimm”) che per quello che riguarda le occlusive l’insieme delle lingue germaniche si comporta in maniera del tutto specifica, anche se sistematica, rispetto alle altre lingue della stessa famiglia indoeuropea. In seguito Franz Bopp estenderà lo studio comparato nella direzione di una messa a confronto delle unità di tipo morfologico, con particolare attenzione per la morfologia verbale.

   L’albero genealogico e la teoria delle onde

   Uno sviluppo importante negli studi relativi alla ricostruzione storica delle lingue è quello costituito dalle ricerche di August Schleicher. Formatosi come botanico, prima ancora che come linguista, Schleicher applica alla lingistica le categorie delle scienze naturali e dell’evoluzionismo darwiniano. Riproponendo in maniera decisa l’ipotesi già intravista dal Jones che il sanscrito, il latino, il greco e le altre lingue imparentate derivano da una protolingua comune più antica di tutte, l’indoeuropeo (o “indogermanico”) formula l’ipotesi (su un modello biologico e completamente a-storico, in cui l’uomo – come dice – ha la stessa possibilità di intervenire quanto ne ha un usignolo di modificare il suo canto) di un albero genealogico in cui queste lingue si inserirebbero: esse, infatti, partendo dalla comune lingua madre, si sarebbero differenziate per ramificazioni successive (ogni ramificazione rappresentando una scissione da un nucleo volta per volta unitario) fino ad arrivare alle attuali forme presentate dalle lingue moderne.

   Questa visione strettamente genealogica ha l’indubbio merito di catturare le somiglianze che si stabiliscono in linea ereditaria tra le lingue, ma non permette di cogliere le relazioni, per così dire, “orizzontali” tra lingua e lingua, che possono stabilirsi a prescindere dall’origine di ciascuna delle lingue stesse. Pur conservando una sua utilità dal punto di vista dell’immediatezza visiva dei rapporti di filiazione, la teoria di Schleicher ha ricevuto molte critiche, che hanno portato ad abbandonarla a favore di una nuova teoria dei rapporti di dipendenza e parentela tra le lingue formulata da un suo allievo, Johannes Schmidt, chiamata “teoria delle onde”. Recuperando la dimensione storica e non meccanicistica delle lingue, Schmidt mostra come le innovazioni linguistiche che si determinano partono da centri che possono essere di volta in volta differenti e si diffondono nello spazio come le onde provocate dal lancio di un sasso in uno stagno. Le onde che si generano sono metafora delle innovazioni operate dai gruppi dei parlanti, partendo da un centro di irradiazione ed indebolendosi man mano che giungono verso la periferia. Così le varie lingue sono interpretabili non solo come il risultato della filiazione genealogica, ma anche e soprattutto come determinate dalla diversa esposizione dei gruppi alla forza innovatrice e spaziale delle onde linguistiche. Questo fa sì che gli elementi comuni a più lingue vengano organizzati in una maniera specifica e differenziata rispetto alla dislocazione geografica: così ci saranno più elementi comuni tra lingue che si trovano vicine spazialmente rispetto a lingue che si trovano distanti nello spazio. In sintesi, si comincia a tener conto anche della variazione diatopica, oltre che di quella diacronica.

   I neogrammatici

   Lo studio della dimensione diacronica delle lingue prosegue nella seconda metà dell’Ottocento attraverso le ricerche di un movimento che viene definito dei “neogrammatici”, del quale sono fondatori Hermann Osthoff e Karl Brugmann. Ad essi è legata la formulazione del principio della “ineccepibilità delle leggi fonetiche”. Esso può essere così formulato: se, nella trasformazione diacronica di una lingua, a diventa b nel contesto X, allora qualunque caso di a che si venga a trovare nel contesto X ineccepibilmente deve trasformarsi in b, presso tutti i parlanti di quella lingua. La base per la formulazione di questa legge è individuata nel principio della costanza delle abitudini articolatorie dei parlanti e, più a monte ancora, nella conformazione dell’apparato fonatorio dei parlanti, non tanto nei termini per cui gruppi diversi di homo sapiens hanno apparati fonatori diversi, quanto nel senso che degli apparati fonatori abituati per generazioni a certe produzioni linguistiche tendono automaticamente a riprodurle.

   La teoria dei neogrammatici sembra incontrare molte eccezioni che, però, vengono via via spiegate ricorrendo alla elaborazione di leggi che permettono di ricondurle a regolarità, come avviene con le leggi rispettive di Hermann Grassman (1863) sul fenomeno della dissimilazione, di Karl Verner (1877) sulla trasformazione delle occlusive sorde in indoeuropeo in fricative sonore specificamente nelle lingue germaniche, di Ferdinand de Saussure (1878) sui tre timbri vocalici *e, *a, *o in indoeuropeo che si conservano distinti in latino e greco mentre in sanscrito si fondono in una sola vocale a, definendo al contempo il ruolo del fonema ricostruito schwa.

   Chi erano gli indoeuropei?

   Finora abbiamo parlato della ricostruzione della lingua degli indoeuropei sulla base delle testimonianze forniteci dalle lingue storicamente attestate. Ma potremmo interrogarci anche su chi fossero, dove abitassero e quando abbiano iniziato le loro migrazioni gli effettivi parlanti di quella lingua. A questo proposito siamo costretti a muoverci in una completa assenza di documentazione e possiamo solo formulare delle ipotesi basandoci su dati che ci forniscono le lingue indoeuropee stesse. Analizzando le unità lessicali (metodo lessicalistico) si può osservare, ad esempio, che tutte le lingue indoeuropee contengono dei termini che sono la continuazione di termini presenti nella lingua originaria per designare sia gli “ovini”, sia i “bovini”. Incrociando questi dati con quelli che provengono dal confronto con i testi elaborati nelle varie lingue (metodo testuale), si ricava l’immagine di un popolo nomade (non esiste infatti nella lingua madre un termine per “città”), dedito all’allevamento, patriarcale, che pratica una religiosità di tipo celeste, organizzato per tribù e sottomesso ad un re (la cui autorità non è tanto politica o militare, quanto di tipo religioso).

   Contemporaneamente, dal confronto tra le varie lingue si ricavano indicazioni sulla loro geografia. Innanzitutto si può rilevare che nella lingua madre non c’è un termine per indicare il “mare”, ma nel corso della loro espansione gli indoeuropei assumono i termini, diversi tra loro, usati dalle popolazioni del cosiddetto “sostrato indomediterraneo” (popoli che abitavano già da prima le terre in cui vanno ad insediarsi gli indoeuropei). In secondo luogo non ci sono nella lingua madre termini che indichino le piante mediterranee come la “rosa”, il “fico”, la “vite” (e prodotti, come il “vino”, l’“olio”), l’“alloro”, il “cipresso” ecc.: gli indoeuropei, nel corso delle varie migrazioni, hanno preso in prestito anche i termini per questi concetti dalle popolazioni preesistenti (fatto di cui c’è l’ulteriore indizio che alcuni di questi termini avevano una radice comune anche a lingue semitiche). Considerazioni di questo tipo hanno fatto giungere all’ipotesi conclusiva che il luogo in cui gli indoeuropei sono originariamente stanziati sia una regione interna e lontana dal mare, come le steppe dell’Eurasia.

  (1) Filippo Sassetti è stato un mercante, linguista e viaggiatore italiano nato a Firenze il 26 settembre 1540 e morto a Goa, India, il 3 settembre 1588.

   In patria si distinse per la sua partecipazione ai dibattiti culturali delle varie accademie fiorentine dell'epoca, in occasione dei quali scrisse un Discorso sopra Dante e si distinse per una sua traduzione della Poetica di Aristotele. Studiò a Firenze e a Pisa ed entrò nell'Accademia degli Alterati. Lo pseudonimo che scelse, Assetato, mostra il suo profondo desiderio di conoscenza. Quando i portoghesi abolirono il monopolio del pepe Filippo lasciò l'Italia per trasferirsi a Lisbona e nel 1582 decise di partire per l'India; tuttavia, anziché arrivare lì, si ritrovò dopo un viaggio di 5 mesi in Brasile. Ci riprovò l'anno seguente giungendo nel 1583 a Cochin, capitale del regno del Malabar e poi a Goa.

   In Oriente Sassetti non riuscì ad avviare nessuna attività redditizia: a fine Cinquecento l'epoca dei facili guadagni era ormai conclusa e l'India era diventata preda dei portoghesi, incapaci di apprezzarne la cultura e intenzionati unicamente a dominarla. Cominciò allora ad occuparsi di piccoli commerci tra l'India e Firenze: spedì mobili, scatole, stoffe, oggetti vari, insomma qualsiasi cosa pur di fare cassa. Sassetti non riusciva a far fronte all'enorme richiesta di prodotti né aveva uno spiccato senso degli affari. La delusione per i mancati guadagni economici lo incoraggiò ad osservare e ad approfondire la conoscenza della civiltà indiana. Cominciò a corrispondere con parenti e amici inviando lettere contenenti informazioni preziose sul paese.

   Trascrisse parti di un trattato botanico in sanscrito, si occupò per primo in Italia del bambù e dell'ananas di cui descrisse i pregi al Granduca. Si interessò anche della pesca e della raccolta di perle. Fu tra i primi europei a studiare il sanscrito, l'antica lingua indiana. Nel 1585, notò similitudini tra alcune parole sanscrite ed italiane.  (es. deva/dio, sarpa/serpe, sapta/sette, ashta/otto, nava/nove).

   Le sue osservazioni anticiparono la scoperta della famiglia linguistica indoeuropea. Fu il primo a interessarsi di medicina tradizionale e di alimentazione indiane, apprezzò la cucina locale e rifletté sull'alimentazione vegetariana. Progettò di ritornare a Firenze passando per la Malesia e la Cina, ma morì di malattia a Goa nel 1588.

   Qui subentra prepotentemente la ricerca portata a compimento dal prof. Enrico Caltagirone. Nel suo libro, la Lingua dei Siculi, vengono confermate le attinenze più volte ipotizzate di una corrispondenza tra tutte le lingue oggi conosciute. Il Sanscrito potrebbe davvero messere la lingua madre. Ma qui nasce il grande interrogativo: "Dove e quando è stato concepito il Sanscrito?"

 

   Fonti: Glottogonia: Origine della lingua

 

Tempi Luoghi Eventi: Prefazione

Preambolo e Presentazione

L'Identità siciliana

viene da molto lontano

 

L'Identità siciliana viene da molto lontano. Origine del nome Trinacria e del Triscele

Scheda di sintesi

Estrinsecazione dei contenuti

 

Deep State - Deep Church: Il mondo sommerso si manifesta

Idioma Siculo e/o Lingua Siciliana

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